mercoledì 29 novembre 2017

Ho cercato il mio Spadino…Intervista a Giacomo Ferrara

Giacomo Ferrara è l’interprete di Alberto Anacleti/Spadino, lo “zingaro” di Suburra. Se Spadino è già un personaggio cult per il suo pubblico, che sta attendendo la seconda stagione, Giacomo “guarda in alto”. In questa intervista ci racconta qualcosa su Spadino, Angelo di Il permesso e anche del suo ultimo progetto, Guarda in alto, opera prima di Fulvio Risuleo.



Iniziamo da Suburra, come nasce e come ri-nasce Spadino? Nel senso, come hai lavorato al personaggio prima per il film e poi per la serie? Da un personaggio che ha un quarto d'ora di storia nel film a dieci puntate della serie, è un bel lavoro...

Per me è stato come affrontare due personaggi diversi. Li ho anche affrontati in maniera molto diversa, perché lo Spadino del film non ha molto da raccontare. Non c'era qualcosa che potesse richiamare un background, non c'era molto spazio per l'immaginazione. Quindi ho lavorato semplicemente su quello che dettavano le scene, sul lavoro di cui mi aveva parlato Stefano Sollima già in fase di provino, che avevamo creato insieme e lo abbiamo poi riportato sul set.
Invece per il lavoro del personaggio per la serie c'era molto più materiale, più sfumature. Lì c'è stato un lavoro più intenso, più complesso perché era molto quello che andavamo a raccontare.
Come nasce? Nasce come un personaggio già forte, ha una cultura molto caratterizzante e questo comporta che il mondo sinti, che è in generale molto teatrale, influisca sulle movenze del corpo; ci sono gesti molto teatrali, c'è la spacconeria e c'è anche la maschera con il sorriso ironico che porta spesso e che è solo di facciata. Poi sotto sono andato a ricercare tutto il dramma che vive il personaggio, è in una posizione di rinnegazione. Di conseguenza, il perché della maschera lo si intuisce dal suo dramma.

Sempre parlando del rapporto tra il film e la serie, come hai fatto a lavorare “a ritroso” sul personaggio? C'è qualcosa del primo Spadino in quello della serie?

Certo. Ritrovi la sfrontatezza, il suo ghigno, il suo non stare alle regole di nessuno, sempre il posto nel mondo che hanno entrambi, questo sì. In realtà non ho pensato molto ad andare a ritroso. Sono andato a vedere queste linee, che già c'erano, per andare poi a creare un personaggio diverso. Non sono stato molto a chiedermi quanto tempo prima o cosa fosse realmente successo, è stata piuttosto la sceneggiatura a darmi lo spunto per creare.

Per creare Spadino ti sei ispirato a qualche interpretazione in particolare? Ti faccio un esempio molto azzardato: più o meno nel periodo in cui è uscito Suburra è uscito anche Lo chiamavano Jeeg Robot, e lì c'è Luca Marinelli che interpreta Lo Zingaro ed ora è un po' lo “zingaro” per eccellenza...

No, anzi, il lavoro di Luca Marinelli è meraviglioso ma diverso dal mio. Non mi sono ispirato a nessuno, se dovessi pensare a qualcosa, ma molto in generale direi un Joker, ma alla fine non lo è; del Joker vediamo solo la parte malvagia e non c'è tutta la parte che si racconta di Spadino e del suo dramma. Potremmo pensare ad un Jesse Pinkman di Breaking Bad, ma nemmeno tanto. Non ci pensavo troppo. Non mi sono ispirato, ho cercato il mio di Spadino. Poi mi hanno accomunato a diversi personaggi bellissimi e ne sono felice; significa che ho fatto un buon lavoro. Non ho pensato a chi o cosa prendere spunto per il tutto.

Hai un po' paura di rimanere “incastrato” in Spadino?

Questo non so, lo dirà il futuro. Non ci penso. Penso a fare del mio meglio in ogni ruolo che mi verrà proposto. Chiaramente Spadino è un personaggio molto forte che rimarrà nell'immaginario di tutti, ha una grande presa; però, sinceramente, non ci penso più di tanto.

Parliamo di Il Permesso; Angelo è, un po' come Spadino, un ragazzo “cattivo”, però è un personaggio diverso. Vediamo il riscatto di Angelo e non il suo passato. È anche un personaggio molto diverso dagli altri; gli altri cercano vendetta, il tuo no, è come se cercasse altro.

In realtà Angelo non è un cattivo ragazzo, è in carcere perché ha fatto una “cazzata”, una rapina a mano armata. Più che altro ha delle cattive frequentazioni, non ha punti di riferimento e si ritrova con persone che lo portano sulla cattiva strada. In carcere capisce che può fare tanto ed esce con
l'idea di riabbracciare la propria famiglia e non per un motivo come gli altri, chi per vendetta, chi per scappare o per salvare il figlio, esce per buona condotta. Nel corso del film esce un po' la storia del personaggio; ha capito che ha fatto un errore che non vuole commettere più, ma d'altro canto gli amici cercano di riportarlo sulla cattiva strada, si ritrova combattuto a scegliere tra la propria famiglia e cosa è giusto fare. È un personaggio diverso da Spadino. Per quanto Spadino non stia bene all'interno della sua famiglia ha scelto di avere una vita criminale, Angelo no, ci si è ritrovato dentro. Ha preso parte ad una rapina ad un benzinaio, è stato preso ed è giusto che sia in carcere, non è però quella la vita che vuole per sé.

Il tuo ultimo film, Guarda in alto, è tutto un altro mondo rispetto a Suburra e Il permesso.

Guarda in alto è un film di un genere tutto suo. È un'avventura che nasce da questo personaggio, Teco, che fa il fornaio e magari si aspettava di più dalla vita, gli manca qualcosa, sente che si è “svegliato troppo tardi”, c'è, di conseguenza, un momento iniziale di depressione. La storia parte con un episodio di un gabbiano che cade fuori al forno dove lavora; Teco si trova lì per fumarsi una sigaretta, vede questo gabbiano e decide istintivamente di andare a vedere cosa è successo e parte alla volta di questa avventura che alla fine lo riporterà a sognare.

Per concludere vorrei farti una domanda un po' scomoda ma che, purtroppo, nasce spontanea. Pensi che una fiction come Suburra possa in qualche modo anticipare la realtà? se pensiamo agli ultimi fatti di cronaca a Roma.


Penso invece che la realtà superi la finzione, lo stiamo vedendo ore e si è sempre visto. Lo scopo di fiction come Suburra è quello di intrattenere e non di fare una sorta di documentario di denuncia su Roma anche perché prende spunto dal libro di De Cataldo. Si è scoperto che erano fatti reali solo in corso d'opera. Quando è scoppiato il caso di Mafia Capitale si stava girando il film di Stefano Sollima, ma non è una cosa voluta. Suburra è “una Roma” ma non vuole essere assolutamente una denuncia o un documentario. Poi non possiamo farci niente... Non c'è neppure l'intento di miticizzare dei personaggi. Se pensiamo ai giorni nostri, ci sono tante cose che sono già viste e già successe e che comunque non c'entrano molto con la serie. Non penso neppure che sia un fatto di emulazione, magari si può emulare un look ma non quello che sono le azioni dei personaggi. Non penso che una serie, che sia Suburra, Gomorra o Romanzo Criminale, possa portare qualcuno a fare del male, il male è sempre esistito e sempre ci sarà a prescindere. Non è per colpa nostra se ci sarà il crimine nel mondo.


Una scena da Guarda in alto di Fulvio Risuleo.
Fonte: repubblica.it

lunedì 27 novembre 2017

Justice League (Zack Snyder + Joss Whedon, 2017), il guilty pleasure

Il primo film dedicato alla Justice League mi è piaciuto, è divertente, veloce e riesce a mettere assieme sei supereroi del mondo DC: Superman (Henry Cavill), Batman (Ben Affleck), Wonder Woman (Gal Gadot), The Flash (Ezra Miller), Aquaman (Jason Momoa) e Cyborg (Ray Fisher).





La morte di Superman ha gettato il mondo nello sconforto e “risvegliato” un supercattivo Steppenwolf, creato da Jack Kirby nel 1972, Bruce Wayne/Batman e Diana Price/Wonder Woman hanno iniziato a cercare nuovi alleati dotati di “abilità speciali” per poter difendere la Terra da questa minaccia.
Introduco con questo post il concetto di guilty pleasure cioè “quei film che ci piacciono e universalmente riconosciuti come brutti”. Il mio guilty pleasure dell’anno è Justice League, diretto e scritto da Zack Snyder e terminato da Joss Whedon, e l’anno scorso lo è stato Batman V Superman sempre imputabile a Zack Snyder.
Ci sono delle cose ben riuscite e cose di cui non si capisce il perché. Si è passati dallo stile cupo e sofferente di Zack Snyder alle battute piene di arguzia e ai colori più accessi di Joss Whedon (autore dei due Avengers, Marvel’s The Avengers e Age of Ultron) tanto che anch’io ho iniziato a pensare che le due cose potessero creare un po’ di confusione nel pubblico.



I momenti più belli del film sono quelli dedicati a Barry Allen/The Flash, commoventi e buffi;


e ci sono le due signore, Wonder Woman che con il suo sorriso illumina lo schermo e Lois Lane (Amy Adams), la donna più potente al mondo, colei che ha il cuore dell’Uomo d’Acciaio.


Batman (che io amo), Superman, Aquaman e Cyborg certe volte sono vittime dei loro ruoli, per loro non c’è spazio di crescita; Justice League dovrebbe mostrare la rottura della solitudine degli eroi e la loro apertura a lavorare con gli altri. I problemi del film sono legate alle difficoltà del DC Cinematic Universe che lentamente sta prendendo forma. JL ha introdotto troppi personaggi senza un film monografico a anticiparli, senza un “passato” ed è molto difficile affezionarsi con così poco.




Termino il post con la domanda “Qual è il vostro guilty pleasure?


sabato 25 novembre 2017

Il diritto di contare: tra storia e attualità!


Il Diritto di contare (Hidden Figures) è un film di Theodore Melfi, tratto dal libro Hidden Figures: The Story of the African-American Women Who Helped Win the Space Race di Margot Lee Shetterly.
Già dal titolo italiano possiamo fare due considerazioni: la parola “contare” può essere interpretata in due modi: contare nel senso di poter trovare un posto nel mondo ed affermarsi, oppure il contare nel senso matematico. Le protagoniste, infatti, sono tre matematiche afroamericane che lavorarono per la Nasa negli anni 50-60. Perciò, chi conosce un minimo la storia americana di quegli anni, può facilmente comprendere il gioco di parole. Il titolo originale, tradotto è “Figure nascoste”, forse meno positivo della versione italiana, ma più coerente con quello che succede, le donne lavoravano in un reparto isolato e appunto “nascosto” rispetto agli altri.
Le vicende raccontate, sono parzialmente vere, le matematiche sono realmente esistite, mentre i ruoli “bianchi” del film, sono stati creati solo ai fini della sceneggiatura.
Il primo gruppo di calcolatrici misero piede al Langley (il più antico centro di ricerca della Nasa) nel 1935, principalmente per due motivi: in primis perchè fino al primo decennio del secolo scorso vi erano molte più matematiche che matematici. Il secondo motivo, le donne assunte rientravano nella categoria di “Paraprofessioniste” e, quindi ricevevano una paga inferiore rispetto ai Professionisti, questo diede un impulso agli utili del laboratorio e una forte spinta ad assumere altre donne.
Nell'estate del 1941 Philip Randolph il capo maggiore del sindacato dei neri chiese che Roosvelt aprisse posizioni equamente retribuite nei cosiddetti “Lavori di guerra” agli spiranti di colore.
Nel 1943, in pieno secondo conflitto mondiale, le donne erano occupate a lavorare al posto degli uomini, questi ultimi infatti erano impegnati nel servizio militare. Fu così che iniziarono ad arrivare le prime candidature delle donne Afroamericane, anche se era stato abolito l'obbligo di allegare le foto al cv, proprio per evitare la discriminazione nell'assunzione, comunque si capiva chi era “Bianco” e chi era “nero” dall'università di provenienza. Resta il fatto, che le donne di “Colore” erano molto più preparate delle bianche, oltre al titolo di studio, avevano alle spalle anni d'insegnamento.
Il film si basa sulla storia di tre matematiche afroamericane: Katherine Johnson (Taraji P. Henson), Dorothy Vaughan (Octavia Spencer) e Mary Jackson (Janelle Monáe), le tre donne che, durante gli anni '60, hanno permesso al John Glenn di orbitare intorno alla terra.
Il film si snoda su due tipi di discriminazioni: sul lavoro Dorothy, Katherine e Mary devono sopportare la segregazione razziale; per di più nella vita di tutti i giorni, tra i “neri”, devono sopportare commenti sessisti “non è un lavoro per delle donne”.
Il film sottolinea molto le difficoltà che le tre donne e che tutte le persone Afroamericane avevano in quegli anni, sebbene la schiavitù fosse stata abolita da anni, di fatto le tensioni e quel senso di superiorità dei bianchi nei confronti dei neri era rimasto. Tutti i gesti più semplici venivano limitati o separati, le due “razze” dovevano vivere esistenze parallele e appunto non intrecciarsi mai: bagni per neri, istruzione per neri, tavolo per neri, e altro ancora. Ma è solo attraverso l'integrazione che gli Stati Uniti sono riusciti ad andare nello spazio e ad affermarsi come super potenza mondiale.
Il film è molto intenso e mira al cuore, c'è molto dell'America di Obama (a mio avviso), appunto quella concezione di andare oltre le differenze di “Razza” (che per inciso, le razze non esistono!!!) e di genere. Il messaggio è molto americano: andiamo sulla luna, conquistiamo altro spazio, solo uniti si può. Nel film ritroviamo anche alcuni “bianchetti” a me molto simpatici: Kevin Costner, che già in altri film si è fatto paladino del “abbattiamo le differenze fra uomini”, citiamo Balla coi Lupi dove ne firma anche la regia. In questo film è scorbutico, ma è proprio il suo personaggio che fisicamente abbatte un cartello che distingueva i bagni dei neri da quelli dei bianchi (pura finzione narrativa). Kristen Dunst ha il ruolo più antipatico del film, però fare la donna con la puzza sotto il naso le riesce benissimo. Ritroviamo anche lo scienziato più famoso della tv: Jim Parsons, lo Sheldon Cooper di The Big Bang Theory, anche qui ha a che fare con i numeri, ma è decisamente meno brillante del fisico della serie, nel film si ritrova a fare i conti con il non avere sempre ragione e con l'essere corretto da altri. Se lo sapesse Sheldon gli verrebbe un colpo.

Il Diritto di contare (Hidden Figures) è un film di Theodore Melfi, tratto dal libro Hidden Figures: The Story of the African-American Women Who Helped Win the Space Race di Margot Lee Shetterly.
Già dal titolo italiano possiamo fare due considerazioni: la parola “contare” può essere interpretata in due modi: contare nel senso di poter trovare un posto nel mondo ed affermarsi, oppure il contare nel senso matematico. Le protagoniste, infatti, sono tre matematiche afroamericane che lavorarono per la Nasa negli anni 50-60. Perciò, chi conosce un minimo la storia americana di quegli anni, può facilmente comprendere il gioco di parole. Il titolo originale, tradotto è “Figure nascoste”, forse meno positivo della versione italiana, ma più coerente con quello che succede, le donne lavoravano in un reparto isolato e appunto “nascosto” rispetto agli altri.
Le vicende raccontate, sono parzialmente vere, le matematiche sono realmente esistite, mentre i ruoli “bianchi” del film, sono stati creati solo ai fini della sceneggiatura.
Il primo gruppo di calcolatrici misero piede al Langley (il più antico centro di ricerca della Nasa) nel 1935, principalmente per due motivi: in primis perchè fino al primo decennio del secolo scorso vi erano molte più matematiche che matematici. Il secondo motivo, le donne assunte rientravano nella categoria di “Paraprofessioniste” e, quindi ricevevano una paga inferiore rispetto ai Professionisti, questo diede un impulso agli utili del laboratorio e una forte spinta ad assumere altre donne.
Nell'estate del 1941 Philip Randolph il capo maggiore del sindacato dei neri chiese che Roosvelt aprisse posizioni equamente retribuite nei cosiddetti “Lavori di guerra” agli spiranti di colore.
Nel 1943, in pieno secondo conflitto mondiale, le donne erano occupate a lavorare al posto degli uomini, questi ultimi infatti erano impegnati nel servizio militare. Fu così che iniziarono ad arrivare le prime candidature delle donne Afroamericane, anche se era stato abolito l'obbligo di allegare le foto al cv, proprio per evitare la discriminazione nell'assunzione, comunque si capiva chi era “Bianco” e chi era “nero” dall'università di provenienza. Resta il fatto, che le donne di “Colore” erano molto più preparate delle bianche, oltre al titolo di studio, avevano alle spalle anni d'insegnamento.
Il film si basa sulla storia di tre matematiche afroamericane: Katherine Johnson (Taraji P. Henson), Dorothy Vaughan (Octavia Spencer) e Mary Jackson (Janelle Monáe), le tre donne che, durante gli anni '60, hanno permesso al John Glenn di orbitare intorno alla terra.
Il film si snoda su due tipi di discriminazioni: sul lavoro Dorothy, Katherine e Mary devono sopportare la segregazione razziale; per di più nella vita di tutti i giorni, tra i “neri”, devono sopportare commenti sessisti “non è un lavoro per delle donne”.
Il film sottolinea molto le difficoltà che le tre donne e che tutte le persone Afroamericane avevano in quegli anni, sebbene la schiavitù fosse stata abolita da anni, di fatto le tensioni e quel senso di superiorità dei bianchi nei confronti dei neri era rimasto. Tutti i gesti più semplici venivano limitati o separati, le due “razze” dovevano vivere esistenze parallele e appunto non intrecciarsi mai: bagni per neri, istruzione per neri, tavolo per neri, e altro ancora. Ma è solo attraverso l'integrazione che gli Stati Uniti sono riusciti ad andare nello spazio e ad affermarsi come super potenza mondiale.
Il film è molto intenso e mira al cuore, c'è molto dell'America di Obama (a mio avviso), appunto quella concezione di andare oltre le differenze di “Razza” (che per inciso, le razze non esistono!!!) e di genere. Il messaggio è molto americano: andiamo sulla luna, conquistiamo altro spazio, solo uniti si può. Nel film ritroviamo anche alcuni “bianchetti” a me molto simpatici: Kevin Costner, che già in altri film si è fatto paladino del “abbattiamo le differenze fra uomini”, citiamo Balla coi Lupi dove ne firma anche la regia. In questo film è scorbutico, ma è proprio il suo personaggio che fisicamente abbatte un cartello che distingueva i bagni dei neri da quelli dei bianchi (pura finzione narrativa). Kristen Dunst ha il ruolo più antipatico del film, però fare la donna con la puzza sotto il naso le riesce benissimo. Ritroviamo anche lo scienziato più famoso della tv: Jim Parsons, lo Sheldon Cooper di The Big Bang Theory, anche qui ha a che fare con i numeri, ma è decisamente meno brillante del fisico della serie, nel film si ritrova a fare i conti con il non avere sempre ragione e con l'essere corretto da altri. Se lo sapesse Sheldon gli verrebbe un colpo.

giovedì 23 novembre 2017

Festival Scrittura e Immagine, dalla pagina al grande schermo

Inizierà domani 23 novembre, fino al 1 dicembre, la 27esima edizione del Festival Internazionale Scrittura e Immagine presso il Mediamuseum di Pescara.
Il festival è dedicato alle trasposizioni filmiche di opere letterarie di ogni genere, ma ci sarà anche qualcosa di più; si terrà negli stessi giorni il 19esimo Festival Internazionale del Cortometraggio.


Il Festival Scrittura e Immagine presenterà quattro sezioni, tre per i lungometraggi e una per i cortometraggi. Per i lungometraggi avremo Scrittura e Immagine, Orizzonti e un Omaggio a Jane Austen in occasione del bicentenario della morte.

Per la sezione Scrittura e Immagine, dedicata allo stretto rapporto tra la pagina scritta e l'immagine filmica, avremo quattro film. Aprirà la rassegna Il Mio Godard di Michel Azanavicius, che dopo The Artist, torna ad omaggiare un grande movimento della storia del cinema, la nouvelle vague. Ci sarà poi Finchè c'è prosecco c'è speranza di Antonio Padovan, noir ambientato nel profondo veneto tratto dal romanzo di Fulvio Ervas. Troveremo poi Il diritto di contare di Theodore Melfi sulla storia vera delle prime tre donne afroamericane a lavorare alla Nasa. Infine ci sarà Il contagio, di Matteo Botrugno e Daniele Coluccini tratto dall'omonimo romanzo di Walter Siti.

La sezione Orizzonti spazia verso altre tematiche e propone tre film: Easy, opera prima di Andrea Magnani, divertente road movie tra Italia e Ucraina, The Teacher, di Jan Hrebejk ambientato nella Cecoslovacchia degli anni '80, e La vita in comune di Edoardo Winspeare, sul valore sociale della poesia.

Jane Austen è una delle autrici inglesi più amata e reinterpretata dal mondo del cinema, molte le trasposizioni più o meno fedeli ai suoi romanzi; il Festival Scrittura e Immagine propone un ciclo di ben sette film in versione in lingua originale sottotitolata tra cui, i più celebri come Orgoglio e Pregiudizio di Joe Wright (2005) e Ragione e Sentimento di Ang Lee (1995), e anche i meno noti al grande pubblico come Persuasion di Adrian Shergold (2007) o Amore e Inganni - Lady Susan di Whit Stillman 

Questa edizione del Festival Internazionale del Cortometraggio ha ricevuto un gran numero di adesioni da tutto il Mondo: sono state inviate infatti più di tremila opere da ben 46 paesi. I lavori presentati si distinguono per l'attualità dei temi trattati e l'alta qualità nello stile registico.
Di questi la giuria ha scelto di proiettarne 60, suddivisi in sei giorni e quattro sezioni: Scrittura e Immagine, Animacorto, Cortoscuola e Spazio Abruzzo.
Le cerimonie di premiazione si terranno venerdì primo dicembre, madrine dell'evento saranno Sara Serraiocco e Lucrezia Guidone, giovani e talentuose attrici pescaresi.



martedì 21 novembre 2017

Borg e Mcnroe: la solitudine del singolo.

Borg e Mcnroe è lontanissimo dai film patinati sul football o da altri film americani sullo sport, che a cadenza (quasi) annua escono al cinema, il tennis non è uno sport fatto di tanti componenti e in questo lungometraggio non viene elogiata la vittoria. Borg e Mcnroe film presentato alla Festa del cinema di Roma di quest’anno vede alla regia Janus Metz, protagonisti Sverrir Gudnason nel ruolo del tennista svedese Bjorn Borg e il “rivale” Shia LaBeouf nei panni dell’americano John McEnroe.
Il film ci viene presentato come un film biografico sulla rivalità di questi due sportivi degli anni ’80, sul loro incontro/ scontro al torneo di Wimbledon. Non sono per niente d’accordo, nel film la rivalità è solo tra sè stessi, i due non s’incontrano quasi mai durante il film, si sfiorano ogni tanto, ma il loro antagonismo è costruito dai media, giornali, giornalisti e tv cercano di creare qualcosa che di fatto non c’è, tant’è che i due nella vita diventarono grandi amici. Sono l’opposto? Nel film si gioca molto sulle differenze tra i due? Più o meno, anche se i due sembrano apparentemente diversi, in fondo sono molto simili. Lo svedese, si potrebbe dire che è quasi protagonista del film, il suo cognome nel titolo viene prima di Mcnroe il film stesso si apre su di lui, Borg appare al terrazzo e guarda giù, preoccupato e allo stesso tempo desideroso di lasciarsi andare nel vuoto (scena che si ripete alla fine del film). Il tennista viene rappresentato come freddo, privo di emozioni, un vero nord europeo, all’opposto abbiamo il furente americano, sempre sopra le righe, litigioso, perde la pazienza facilmente, sembra non avere rispetto per lo sport che pratica, per il pubblico, per l’avversario.
 Dei due viene analizzata l’infanzia, dei flashback si aprono come piccole finestre sul presente. Scopriamo che i due ragazzi non sono poi così tanto diversi. I due riescono ad eliminare tutti gli avversari e a scontrarsi, Borg lotta contro sé stesso e Mcnroe…anche. Mcnroe in quest’ultima partita cerca di avere un assoluto autocontrollo, rispetta l’avversario e non perde mai le staffe. Il vincitore verrà decretato solo al quinto set. Se non sapete chi vince, non ve lo dirò, ma la vittoria non ha importanza, non è assolutamente la celebrazione della vittoria, ma è la storia di due sportivi, soli, cupi, che mettono quasi tenerezza, non sono riuscita a tifare l’uno o l’altro, è un film che ti lascia l’amaro in bocca, che scava affondo nell’animo dello sport, anzi delle persone, nelle aspettative e nei sogni di gloria. Non c’è l’elogio o l’esaltazione di tutto questo, ma la fatica e la forza di dover essere sempre migliori, per sé stessi e per il bambino che ossessionato si è impegnato per essere il migliore, per prendersi una rivincita, ma non sull’altro.

C’è un altro aspetto che viene sottolineato nel film, la figura paterna il non voler deludere i nostri padri, che con molti sacrifici ci portano a fare quello che desideriamo e ci spronano, per Borg questa figura è il suo allenatore (quasi più paterno del padre di Mc.), per Mcnroe è il padre biologico. Averli sugli spalti per loro è importante, nonostante il primo in continuo conflitto nella vita privata cerchi di allontanarlo in tutti i modi.  Sono andata a vederlo aspettandomi un film come Rush, mi è piaciuto molto, ma se andate anche voi a vederlo con un’aspettativa simile alla mia: scordatevi il primo. 

domenica 19 novembre 2017

THE PUNISHER - NEL MIRINO DELLA PRIMA PUNTATA

I morti non tornano in vita dalle loro fredde bare, Frank Castle lo sa bene. Dopo che gli hanno portato via moglie e figli, l’unica soluzione per combattere i loro fantasmi che lo tormentano la notte, è quella di gettare i vecchi abiti e diventare una macchina assetata di sangue che cerca giustizia, libertà e riscatto. Una macchina che punisce.


In esclusiva su Netflix arriva la prima serie TV interamente dedicata all’antieroe più impetuoso e prorompente di casa Marvel. Frank Castle, ovvero Il Punitore, è stato interpretato nuovamente da Jon Bernthal (The Walking Dead, Fury, Baby Driver - Il genio della fuga ecc...); Dico “nuovamente” perché recita il personaggio del Punitore anche nella serie di Daredevil, precisamente nella seconda stagione. Da quest’ultima torna anche Deborah Ann Woll nei panni della bellissima bionda Karen Page.


Dopo il deludente Iron Fist e The Defenders, The Punisher aveva tutte le carte in regola per essere una bomba, una serie cupa e cruenta dove i colori predominanti sono il nero della notte e il rosso del sangue.
Bene, la prima puntata non è stata convincente per nulla. Non ho trovato adrenalina sufficiente nella scrittura per sviluppare una trama intrigante, sopratutto per quanto riguarda la scelta di alcuni personaggi, poco sfaccettati e sopratutto già visti. Nonostante Il Punitore sia un personaggio narrativamente forte, da solo non riesce a tenere in piedi l’intera serie; In Daredevil, nonostante non abbia avuto i riflettori puntati, sin dalla sua prima comparsa è riuscito a convincere lo spettatore.

Spero che con il proseguire della serie le cose migliorino perché The Punisher ha tantissime potenzialità, sopratutto con un attore del genere che a mio avviso lo interpreta alla perfezione. Auguriamoci che mentre siamo seduti sul divano a gustarci la serie, Frank Castle ci afferri la mano e ci trascini nel suo oblio rendendoci partecipi del suo odio e della sua sofferenza, perché è
questo che un buon prodotto deve fare: Emozionare.

venerdì 17 novembre 2017

Gomorra 3, stamm turnann!

Gomorra è ormai un fenomeno di culto; citazioni e parodie dilagano ovunque e non si può fare a meno di dire “Sta senza pensier” o “Ce ripigliammo tutto chillo ch’era o nuostro!”


Nel 2006 Roberto Saviano pubblicò il romanzo-inchiesta che divenne subito un fenomeno non solo letterario ma sociale; per la prima volta si parlava del fenomeno della camorra senza risparmiare nomi e cognomi. Al romanzo seguì il film di Matteo Garrone del 2008 ed infine nel 2014 andò in onda la prima stagione della serie.
Un progetto di serialità deve ampliare trama e sistema dei personaggi e nel corso delle due stagioni vediamo che al nucleo iniziale si è aggiunto molto altro.
Nella serie di Gomorra incontriamo il clan dei Savastano. Don Pietro (Fortunato Cerlino), sua moglie Imma (Maria Pia Calzone) e suo figlio Gennaro detto Genny (Salvatore Esposito) ne sono i capi. È in atto una guerra di mafia tra loro e Salvatore Conte (Marco Palvetti). Quando don Pietro per un banale controllo della polizia finisce in prigione, il clan rimane senza un capo, Genny è inesperto e donna Imma una donna, è il momento per Ciro Di Marzio detto l’Immortale (Marco D’Amore) per riscattarsi da soldato e diventare il capo. Ovviamente donna Imma non vuole cedere il potere e scatenerà tutto l’odio dell’Immortale.
Nella prima serie tutte le vicende ruotano attorno al clan Savastano e Ciro, nella seconda possiamo notare come l’universo diegetico si sia allargato a tutta una serie di comprimari, tanto da creare linee narrative parallele a quella principale di Ciro contro i Savastano. A Genny e Ciro si aggiungono Scianel (Cristina Donadio), Patrizia (Cristina dell'Anna), O Principe (Antonio Folletto), O Track (Carmine Monaco) e tanti altri.
In questo modo Gomorra si distacca dalla serialità “all’italiana” per avvicinarsi a quella statunitense.

Un elemento della serie di Gomorra che la distacca molto dal panorama italiano è quello di aver scelto ben quattro registi a cui affidare le varie puntate, Stefano Sollima, Francesca Comencini, Claudio Cupellini e Claudio Giovannesi che si aggiunge nella seconda serie. Quattro stili di regia molto differenti che si adattano ai diversi mood che possiamo ritrovare nel corso della serie. Se con Sollima troviamo un ritmo serrato per la narrazione, con Comencini si ha un approccio più “freddo” e lento. Alla pittoricità dei movimenti di macchina di Cupellini si alterna la crudezza della regia di Giovannesi.
L’autorialità che pervade la serie non ha sminuito la sua ricezione sul grande pubblico, anzi! Gomorra, proprio grazie alla serie, è diventato un fenomeno “pop”, le battute di Ciro, Genny e gli altri sono diventati dei tormentoni. Oggi su Sky Atlantic riprenderà la terza serie e i fan non riescono proprio a “sta senza Pensier”

mercoledì 15 novembre 2017

Un treno di notte per Lisbona: un viaggio per rivivere



Si tratta di un film del 2013 dalla trama intrigante che mi ha piacevolmente colpita, diretto dal danese Bille August, e vede come protagonista Jeremy Irons, interprete di un professore di latino alla soglia dei sessant'anni. Durante il tragitto per recarsi al liceo di Berna dove lavora, in una giornata che sembra uguale a molte altre, incontra una giovane donna, decisa a buttarsi da un ponte. La rassicura e la fa accomodare nella sua classe, ma poco dopo la giovane se ne va, dimenticando un cappotto rosso, e nella tasca un piccolo libricino. Il titolo è Um ourives dal palavras, L’orafo delle parole, di Amadeu Inácio De Almeida Prado, stampato a Lisbona nel 1975.
Su una pagina trova il timbro di una libreria di Berna. il libraio racconta di come la ragazza dal cappotto rosso l’avesse letto, comprato, e poi se ne fosse andata, proprio il giorno prima. Tra le pagine  del libro misterioso trovano un biglietto ferroviario per Lisbona, che parte in 15 minuti.
Qui il professore fa la sua scelta: decide di raggiungere il binario e salire sul treno, inseguendo non tanto la misteriosa ragazza quanto la storia di quel piccolo libro che lo ha affascinato, tanto da avere l’impressione di averlo scritto lui stesso. Il desiderio è quello di incontrare l’autore, conoscendo di persona quello spirito affine.
Da qui inizia una serie di incontri, tanti tasselli di un unico grande mosaico, per scoprire a poco a poco chi è Amedeu, perché ha scritto quelle pagine e che cosa lo collega alla giovane ragazza e alla Storia: l’opposizione, insieme ad altri ragazzi, alla dittatura di António de Oliveira Salazar. Il film contrappone la grigia e piovosa Berna alla soleggiata e vivace Lisbona, scelta che ci aiuta ad immergerci nel cambiamento d’animo del protagonista.
Il professore compie un viaggio liberatorio, esce dalla monotonia e dalla solitudine della quotidianità (ormai non risponde nemmeno più al preside del liceo che lo chiama insistentemente) e guarda al mondo e alle persone con occhi nuovi (non a caso una speciale compagna di ricerca sarà proprio un’oculista) rivivendo una vita complessa, emozionante, coraggiosa attraverso quella di Amedeu.

lunedì 13 novembre 2017

Dracula di Bram Stoker – Francis Ford Coppola

Dracula di Bram Stoker è stato diretto da Coppola nel 1992. Uscito in data 13 novembre, oggi compie ben 25 anni. Nonostante sia passato molto tempo da quando questa versione del vampiro di Stoker fu girata, si può affermare con certezza che a tutt’oggi risulta essere un’opera di altissimo livello.
Jonathan Harker (Keanu Reeves) si reca in Transilvania al castello del conte Dracula (Gary Oldman) per concludere degli affari. Dracula non è altri che Vlad Tepes, un sovrano che a seguito della morte dell’amata moglie, rinnegò la fede in dio e si tramutò in un non-morto. Harker non riesce ad andarsene dal castello, perché trattenuto dalle mogli del conte. Il vampiro invece si reca a Londra, dove è intenzionato a trovare Mina (Winona Ryder), la promessa sposa di Harker, in quanto incantato dalla somiglianza con la sua oramai perduta consorte. Dopo aver sedotto Lucy (Sadie Frost), Nosferatu si ritrova ad essere ostacolato dal dottor Van Helsing (Anthony Hopkins). Riesce però ad entrare in contatto con Mina, che è a sua volta affascinata dal misterioso straniero. L’amore rianima e tormenta Dracula, finché Mina, conscia di ricambiare l’amore di colui che fu Vlad Tepes, lo libererà dalla maledizione.
Si tratta dunque di una versione di Dracula in cui il melodramma gioca con l’horror, in cui appare un vampiro terribile, inquietante e sanguinario, che però si strugge per amore. Oldman interpreta in modo eccellente un’anima dannata che si rammarica per la sua sposa perduta, che prova dei sentimenti umani nonostante i suoi lati più demoniaci e ferini. La passione che unisce Vlad alla sua defunta moglie, che ha ritrovato in Mina, fa sì che nonostante i tratti inquietanti e diabolici del vampiro, lo spettatore riesca a provare empatia con questo antieroe. Le repentine trasmutazioni di Dracula, che passa dall’essere un vecchio demoniaco, all’essere una nube di vapore, un uomo lupo, un affascinante giovane e così via, sembrano essere lo specchio della natura umana, talvolta animalesca e talvolta alta e nobile. Winona Ryder si destreggia nel personaggio di una donna pura e nobile, che un po’ alla volta viene sedotta e cede al fascino carnale del conte. Hopkins interpreta un Van Helsing eccentrico, mezzo uomo di scienza e mezzo uomo mistico che spicca in mezzo ad altri personaggi, che forse risultano meno studiati.
Ciò che però davvero colpisce del lavoro di Coppola è la qualità visiva del film. Nulla è lasciato al caso, ogni fotogramma si presenta ricco di particolari e frutto di una certosina ricerca dell’immagine, passando da scenografie curate nei minimi particolari, a dettagli in primo piano, come i globuli rossi del sangue infetto. Vi sono richiami all’uso delle ombre espressionista, all’Oriente nell’uso di vesti dorate e nell’escamotage del teatro di ombre, vi sono scene granguignolesche vicine allo splatter, ambientazioni di gusto gotico. Coppola sembra quasi giocare con questi elementi per dar prova della sua abilità da un lato, ma, a mio avviso, sono anche un pretesto per omaggiare la settima arte, a cui dedica un cammeo nella sequenza in cui Dracula invita Mina a portarlo al cinema.
Di certo Coppola cammina sulla soglia del buon gusto, ma lo fa con grande maestria e dando prova di una grande padronanza del mestiere. Dracula di Bram Stoker rimane un’opera intramontabile, visivamente appagante e coinvolgente, che di sicuro vale la pena riguardare.


Titolo originale: Bram Stoker’s Dracula ; Regia: Francis Ford Coppola; Anno: 1992; Paese di produzione: Usa; Produzione: American Zoetrope, Osiris Films; Durata: 122 min.

sabato 11 novembre 2017

Dirty Dancing (Remake), quando neppure all'inferno proietterebbero un film del genere!

Ci sono dei film sacri per le ragazze, uno di questi è Dirty Dancing; dico sacro perché ogni volta che lo danno in tv noi lo guardiamo come si fa con la messa di Natale, ripetiamo anche le parti più importanti.
Si dice: squadra che vince, non si cambia. Dovrebbe essere così anche per il cinema. Se un film ha funzionato, basta, fermiamoci qui non continuiamo con inutili accanimenti terapeutici cercando in tutti i modi la strada del remake. Ci sono dei remake ben riusciti, sono delle rare eccezioni nel caso di Dirty Dancing è stato un omicidio al pari del duello tra Achille ed Ettore, dove il corpo del secondo (che sarebbe l’originale) viene massacrato. Abbiamo cercato dei motivi per cui questo film è proprio terribile come dice Laura “E’ il male”, come dice Francesca “Se andasse all'inferno neppure il diavolo lo vorrebbe per torturare i dannati”. Si era pensato di fare 10 cose sbagliatissime a testa, ma visto che al peggio non c’è mai fine: nessun limite!


1. Il Casting. La scelta degli attori sbagliatissima.
2. Abigal Breslin nel ruolo di Baby e qui apro delle sottocategorie per specificare meglio:
- fisicamente non adatta, bassa e anche un po’ troppo paffuta, non ho niente contro le curvy (io stessa non sono una modella), ma in un film ballato ti aspetti una fisicità decisamente differente.
- Non sa per niente ballare. Quando si muove sembra un orangotango che si muove.
- Perché è stata scelta (vedi punto 1)? Ma soprattutto perché lei ha deciso di misurarsi in questo ruolo. Ammettiamolo: brava, ci vuole del gran coraggio.
- Recitava in maniera imbarazzante, nel senso che si vedeva che non era per nulla a suo agio nel ruolo.
- Manca l’effetto sorpresa a fine del film, balla male dall’inizio alla fine del film e non viene da dire “mamma mia quanto è brava a ballare!”
- I produttori volevano mandare il messaggio di non discriminazione verso le ragazze non proprio magre, però lei è proprio sgraziata!
3. Manca la profondità dei due protagonisti. Johnny e Baby sono due personaggi complessi. Lui è un ragazzo che per scappare dalla miseria ha investito su se stesso (e il suo corpo) ma che vorrebbe di più dalla vita, lei è una ragazza apparentemente forte ma in realtà davvero insicura. Nel remake troviamo un fighetto e una piagnona che vuole essere come il padre.
4. La coppia, manca affinità. Sono troppo freddi quando ballano, quando si toccano non senti le vibrazioni che sentivi con la coppia Jennifer e Patrick (nonostante i due si odiassero, sono riusciti a fare meglio di questi due).
5. Mancano quei dialoghi pregni di significato che si scambiano Baby e Johnny, è quello il momento in cui si rivelano per ciò che sono.
6. Arrangiamenti pessimi, le canzoni del film sono state anch’esse rifatte: perché????????? Quando rifai una cosa, lo fai per migliorarla o per fare altro dall’originale non sostituisci la musica con una base da Karaoke.
7. Sesso ovunque, tranne che sul ballo ed era proprio lì che doveva esserci la sensualità.
8. Manca la crescita di Baby, puntano tanto sulla maturazione a parole “Non sono più una bambina”, “Non chiamarmi più Baby”, “Meglio se cambi nome, non sei più una Baby”, ma di fatto la crescita effettiva della protagonista non c’è.
9. Johnny è visto come un fighetto a cui piacciono le milf. Non sappiamo perché gli piace ballare!
10. Su Johnny potrei anche passarci su (di Patrick ce n’era uno solo), ma Baby no! Baby è un personaggio davvero interessante da riproporre ancora oggi. Matura per la sua età, forse troppo, risoluta e soprattutto ironica. Lei riesce a scherzare anche in momenti drammatici come quando Johnny è costretto ad andare via. Nel remake mi sembra che si sia insistito solo sul ballo e sul rapporto con il padre (che in realtà è molto più profondo di quanto mostri questo remake).
11. Hanno cercato in tutti i modi di dire cose inutili e aggiungere cose altrettanto inutili:
-genitori in crisi
-la madre che vuole diventare una volpona
-il padre che era depresso perché forse non voleva fare il medico
-lisa al parco con il cameriere che tenta di stuprarla
12. La scena del cocomero, già la battuta era sembrata patetica nel primo, qui lui risponde “Lascia stare il cocomero”: non so, vogliamo scriverci una tesi su sto cocomero?
13. La scena del ballo finale è morto. Io mi alzo ogni volta e ripeto i passi (avessi un fidanzato lo obbligherei a fare la presa dell’angelo). Qui sembra che stiano ballando la macarena ad una festa di paese.
14. Manca l’abbraccio iniziale della coreografia di Baby e Johnny, per intenderci quella ripetuta cento volte nel film e che è sulla locandina… perché?
15. In generale, non c’è coesione tra i protagonisti e il corpo di ballo. Nel film originale, nella scena nelle stanze degli animatori erano tutti appiccicati (e lì si capiva che erano dei “zozzi”); nel remake sta al centro Johnny e tutti a due metri di distanza.
16. Lisa non è più la sorella oca ed ingenua, ma intelligente e simpatica. A questo punto potevano fare un film dal titolo “L’amore di Lisa”, “L’estate di Lisa”, “La sorella scema di Baby incontra l’amore” .
17. Lisa (sempre lei) s’innamora di un nero, un musicista.
18. Baby sembra una stalker, sembra quasi implorare l’inutile Jhonny a fare sesso con lei…. Più volte: alla faccia della dignità femminista.
19. Da un film sulla danza è diventato un musical: potevano chiamarlo (altre proposte) Dirty Singing.
20. L’amicizia tra Penny e Baby. Questa solidarietà femminile nel primo film non c’è, almeno non all’inizio. Baby è ricca, Penny no, la prima è in vacanza con la sua famiglia, la seconda è stata cacciata di casa, non potevano piacersi subito.
21. Vi dirò di più Penny dice a Baby prima di tutti di essere incinta.
22. Il cugino di Johnny in questo film è assente.
23. I legami di amicizia che si percepivano nel primo film (tra i ballerini) qui sono assenti. Tanti attori sparsi qua e là a recitare le loro parti.
24. Manca Ortega!
25. La presenza ossessionante del matrimonio: “sposarsi, fare la moglie, divorzio”.
26. Jhonny non ha la macchina ha la moto.
27. Il saluto –pre- finale tra i due avviene alla presenza di altre persone. Addio intimità, addio lacrime.
28. Minutaggio: due ore e tre minuti, inutili!
29. Stesso discorso di Lisa: i personaggi antipatici del primo film diventano simpatici e rischi di odiare i protagonisti (perché alla fine arrivi ad odiarli). Il nipote di Kellerman non è un viziato e arrogante, ma buono e comprensivo (dopo aver visto Baby e Johnny baciarsi non la “denuncia”).
30. Mancano i personaggi secondari, quelli che facevano da sfondo alla vicenda: i due anziani ladri e tanti ospiti dell’albergo che durante il film vedi regolarmente (ad esempio i due ragazzini che ballano, lei alta e lui bassetto).
31. Il primo film aveva come tema, non tanto la danza, o meglio questa era vissuta come libertà, come qualcosa che ti lasciava andare, non era probabilmente neppure un film sull’amore. Ma sul coraggio, sull’incertezza che viene a crearsi durante la crescita. Faccio molta fatica a trovare l’essenza di questo remake.
32. Finale. Jhonny diventa un coreografo, scopriamo che i due non sono rimasti insieme e che Baby si è sposata ed ha avuto una figlia, i due si incontrano a Broadway, in scena c’era lo spettacolo di lui, titolo “Dirty Dancing”. Il primo film finiva con Jhonny che guardava pieno d’amore Baby, il salone principale dell’albergo con tutti che danzavano, ballerini e ospiti, era la celebrazione del cambiamento, le differenze sociali venivano dimenticate. Bastava questo per finire il film. Ma essendo il remake una accozzaglia di inutilità era indispensabile aggiungere altro.
33. Il Talent Show (fa molto Amici di Maria) e, Lisa che canta una canzone con l’insegnante di musica. Ma Lisa non era stonatissima?
34. In questo film si scopre che Jhonny non ha studiato perché dislessico.
35. Ilarità i due fanno sesso su un lettino singolo.
36. Questo film è la celebrazione dell’ovvio e dell’inutilità, concludendo vorrei citare una battuta di Penny quando comunica di essere incinta “Si vedrà che sono incinta”. No, tranquilla Penny, il bambino non crescerà, le donne spesso nascondono le gravidanze.
37. Non viene spiegato minimamente perché i due si spostano in acqua a provare le prese, vengono buttati in acqua così, sul calar del sol.
38. La parte peggiore: hanno rovinato le prove di ballo durante la canzone Hungry Eyes, era la cosa più bella di tutto il film, quando la tensione tra i due protagonisti inizia a farsi più intensa perché i due provano a resistersi ma l’attrazione inizia a farsi spazio.
39. Ridateci Patrick!!!
40. Avevamo davvero bisogno di questo remake?

giovedì 9 novembre 2017

Alla scoperta del Latin Lover

Tutte le donne amano gli attori, che sia bello e dannato come Michael Fassbender in Shame, che si destreggi con i superpoteri come Chris Hemswort o che sia un po’ imbranato come Hugh Grant in Notthing Hill gli attori hanno come un’aura di fascino attorno a loro che guardandoli non puoi che fantasticare su di loro.


Chi è il Latin Lover? e perché è il sogno di tutte le donne?
Il film di Cristina Comencini del 2015 cerca di spiegarlo con i toni di una commedia gran parte al femminile.

È il decennale della morte del noto attore Saverio Crispo (Francesco Scianna), e tutte le sue mogli e le sue figlie si riuniscono per la cerimonia di commemorazione. Ognuna di loro ha una sua visione del grande uomo che è stato e se, “ormai tutto è stato detto su Saverio” qualcosa verrà a galla.
Due mogli, Rita e Ramona, e ben cinque figlie Susanna, Stephanie, Segunda, Solveig e Shelley compongono l’ideale harem di Saverio Crispo, un personaggio fittizio ma che racchiude in sé molti degli attori del cinema italiano di un tempo.
Le donne di casa Crispo sono molto diverse tra loro, ma hanno tutte il mito del padre.
Susanna (Mariangela Finocchiaro) si occupa della fondazione dedicata al padre, vive della sua memoria come se lui fosse sempre lì con lei. Stephanie (Valeria Bruni Tedeschi) è la figlia francese, attrice nevrotica. Segunda è la figlia spagnola (Candela Peña), moglie e madre appassionata della sua famiglia allargata. Solveig (Pihla Viitala) è l’altra figlia attrice svedese, non sa quasi nulla del padre e per lei è una sorta di fantasma irraggiungibile. C’è infine Shelley (Nadeah Miranda), la figlia del DNA.
Rita (Virna Lisi) e Ramona (Marisa Paredes), le due mogli hanno un bel rapporto di complicità nonostante tutto.
Otto donne ben caratterizzate dalla regista e sceneggiatrice del film che è riuscita a creare personaggi e non stereotipi di figlie innamorate della figura del grande padre. Abbiamo d’altro canto otto interpretazioni molto azzeccate, basta ricordare Virna Lisi nella sua ultima apparizione.
Attorno a loro orbitano tre uomini, quasi evanescenti al confronto del grande attore, Marco, giornalista esperto di Crispo (Claudio Gioè), Alfonso (Jordi Molla) il marito fedifrago di Segunda e Walter (Neri Marcorè) fidanzato segreto di Susanna. C’è infine Pedro (Lluis Homar), la controfigura di Saverio, fino ad allora in ombra.

Il lavoro di Cristina Comencini è stato soprattutto nel ricreare l’atmosfera che regnava nel cinema degli anni 50, 60 e 70, ma ponendo la storia ai giorni nostri.

Al centro della storia c’è un fantasma del cinema passato, Saverio Crispo, mai realmente in scena ma sempre presente.
Il Saverio di Francesco Scianna è un omaggio ai grandi attori italiani e non, da Mastroianni a Tognazzi, passando per Sordi, Gassman, Volontè fino a Eastwood, Delon e al Latin Lover per antonomasia, Rodolfo Valentino. È impressionante il modo in cui questo attore sia riuscito a riportare tante personalità diverse in un solo personaggio e lo fa con una leggerezza tale da portare lo spettatore dalla sua parte (un atto seduttivo in tutto e per tutto).




P.S. Lo ammetto, ho un debole per Francesco Scianna fin dai tempi di Baaria. Quando l’ho incontrato alla cerimonia di premiazione del Flaiano, qualche anno fa, non ho capito più nulla e sono riuscita a spicciare solo frasi poco articolate, sarà quel suo fascino da latin lover…

martedì 7 novembre 2017

Gifted: un piacevole ritorno!

Finalmente sono riuscita ad andare al cinema.
Spieghiamoci, non avevo smesso di vedere film in questi mesi, solo che purtroppo per una abbastanza finita e definita serie di motivi non sono potuta andare.
Il film mi è piaciuto moltissimo; probabilmente non farò una recensione lunga 1000 pagine, quando una cosa mi piace, mi lascia abbastanza a corto di caratteri. Vado meglio con quello che non mi piace (non ho apprezzato molto il doppiaggio, se proprio devo trovare qualcosa).
Premetto che il Marc Webb lo apprezzo molto, ho adorato il suo 500 giorni insieme e vi dirò di più mi sono piaciuti anche i due The Amazing Spider Man.
Il film racconta, con estrema semplicità la storia di Frank (Chris Evans) e Mary Adler (Mckenna Grace), zio e nipotina di 7 anni con un incredibile talento per la matematica, proprio come sua madre morta suicida. Lo zio e la sua vicina di casa Roberta (Octavia Spencer), cercano di accudire e proteggere la bambina, hanno paura che il “mondo” venga a conoscenza della dote di Mary e che la bambina possa dire definitivamente addio alla sua infanzia. Frank decide di dare a Mary quell’infanzia che fino a quel momento non ha saputo vivere e la iscrive in una scuola pubblica; per lo zio è molto importante che Mary possa imparare ad interagire ed empatizzare con i suoi coetanei. Già il primo giorno di scuola la tenerissima e incazzosissima Mary si fa notare dalla sua insegnante Bonnie Stevenson (Jenny Slate). Da qui inizierà una battaglia legale tra Frank e sua madre (Lindsay Duncan), quest’ultima pur non avendo mai visto la nipote, scoperto il dono della bambina vuole averne la piena custodia per far sì che possa andare a studiare nei college più prestigiosi. Commovente, delicato, tra le cose che mi sono piaciute di più oltre all’undicenne Mckenna Grace,
tenerissima a confronto con la fisicità di Chris Evans sembra molto più piccola della sua età e fragile, nonostante abbia un caratterino non indifferente.
Vorrei segnalare anche che l’aspetto legale non è stato il protagonista assoluto del film, cosa che molto spesso succede, quando il tema centrale è la custodia o c’è di mezzo un tribunale almeno il 75% del film si svolge all’interno di quest’ultimo.
Chris Evans non mi è dispiaciuto in questo ruolo, però McKenna lo offusca notevolmente, ha troppa personalità quella scriccioletta, neppure Captain America può tanto (speriamo che Stenia non legga questa recensione, manteniamo il segreto).
Per concludere vorrei far notare la bassa quantità di brani sonori nel film, Marc Webb è un regista di videoclip musicali e mi aspettavo una super scelta di brani, come aveva fatto in 500 giorni insieme (su Spotify ascolto spesso il Soundtrack), in questo film ci sono pochissime canzoni per lasciare spazio alle parole, sono queste e la storia a suscitare le emozioni e non la musica.

P.S. Voglio fare un monumento al gatto Fred, un micione rosso, che fa molto gatto di Colazione da Tiffany, un tenerissimo pelosone con un occhio solo.

domenica 5 novembre 2017

La corazzata Potëmkin è una cagata pazzesca! (non proprio)

Ci sono film che chi si occupa di cinema deve vedere integralmente, uno di questi è La Corazzata Potëmkin di Sergej M. Eizenštejn. Io l’ho evitata a lungo, il giorno che la fece vedere il prof. in triennale, ero assente (se mi sta leggendo, mi perdoni); ad ogni modo, l’ho recuperata con mia grandissima gioia (si fa per dire).


Mi sono chiesta cosa avrei potuto dire di mio su questo film, ma non sono riuscita a misurarmi faccia a faccia con un opera su cui è stato probabilmente detto tutto (e forse anche di più); ho deciso così di fare qualche ricerchina da brava ex studentessa e individuare gli elementi più interessanti.

Sebbene non si tratti del film di svariate ore citato in Il secondo tragico Fantozzi (dura infatti 1 ora e 13 minuti), La corazzata Potëmkin non è un film godibilissimo; vi troviamo però degli elementi fortemente moderni per il cinema dell’epoca e in alcuni casi anche per i giorni nostri.

Ejzenštejn realizza La Corazzata Potëmkin nel 1925, per celebrare i vent’anni dalla rivolta.
Nel 1905 alcuni marinai della nave corazzata Potëmikn, ancorata al largo del porto di Odessa, si ribellano ai loro superiori a causa delle cattive condizioni di vita a cui sono forzati. Gli ufficiali ordinano di ucciderli ai loro stessi compagni, l’equipaggio di fronte a tanto si ammutina. Gli abitanti di Odessa, saputo dell’accaduto li appoggeranno e andranno in loro soccorso.
La pellicola di Ejzenštejn, di conseguenza, è fortemente di propaganda comunista anche se tratta di fatti antecedenti la rivoluzione d’ottobre.
Il film, ovviamente muto, è suddiviso in cinque atti:

1. Gli uomini e i vermi
2. Dramma sul ponte
3. Un uomo morto chiede giustizia
4. La scalinata di Odessa
5. L’incontro con la squadrone

In La corazzata Potëmkin l’elemento fondamentale è il montaggio dialettico o "delle attrazioni". Per Ejzenštejn, nel cinema 1+1 fa 3, nel senso che l’unione di due immagini tramite il montaggio tira fuori una terza immagine con un significato aggiunto. Lo spettatore deve essere colpito da cosa gli si sta mostrando, deve essere attivo. Il montaggio è il modo in cui il cinema deve interpretare la realtà. Ad esempio: durante La scalinata di Odessa, vediamo delle riprese di una statua di un leone, prima dormiente, poi la statua prende vita davanti ai nostri occhi attraverso il veloce montaggio della statua in pose differenti; il leone si è risvegliato, è il momento di ribellarsi!

Una curiosa questione di montaggio accadde con la versione svedese del film. Sebbene il regista avesse raccomandato di non eliminare nessuna sequenza del film, i distributori le montarono in modo “sbagliato”. Inserirono prima la parte della rivolta e poi quella della condanna a morte, il messaggio del film venne del tutto invertito.

L’influenza del montaggio di Ejzenštejn e in particolare di questo film è più forte di quanto si pensi.
In Gli Intoccabili di Brian de Palma, troviamo una scena in cui c’è una carrozzina che scende abbandonata da una scalinata, indovinate a cosa si ispira? Proprio ad una scena di questo film! Le citazioni sono infinite da Star Wars a Amore e guerra di Woody Allen e non dimentichiamo il remake con Filini nei panni della vecchia (che per la cronaca è identica!)



È naturale chiedersi, perché vedere ancora La corazzata Potëmkin? Forse perché vogliamo poter affermare che è una cagata pazzesca come il caro Fantozzi (che è un po’ in tutti noi)


giovedì 2 novembre 2017

PENNY DREADFUL – UN TERRIFICANTE TUFFO NELLA LONDRA VITTORIANA

Halloween è già passato ma è mio dovere consigliarvi qualcosa degno di nota che possa accompagnarvi in una piacevole e terrificante visione nei prossimi giorni. Il titolo in questione che oggi voglio presentarvi è Penny Dreadful, una serie TV di produzione britannica e statunitense interamente scritta e ideata da John Logan, composta da tre stagioni (conclusa) per un totale di ventisette episodi.

Avete presente quei personaggi iconici della letteratura horror come: Dr. Jekill e Mr. Hyde, Frankenstein, Dracula, Dorian Gray, licantropi, vampiri, streghe e altre creature oscure di ogni tipo? Bene, questa serie li prende tutti catapultandoli nella Londra vittoriana e intrecciando le loro trame; Ogni personaggio sarà di fondamentale importanza ricoprendo uno specifico ruolo all'interno della storia. Seppur abbiano mantenuto la loro caratterizzazione originale, alcuni sono stati leggermente rivisitati senza però essere snaturati da quello per cui li conosciamo.

Da sinisra: Sir Malcolm Murray, Dorian Gray, Vanessa Ives, Victor Frankenstein e Ethan Chandler

Come protagonisti principali invece abbiamo personaggi nuovi creati appositamente per sviluppare le loro trame intrecciandole con quelle dei sopra citati. Essi sono: Vanessa Ives (Eva Green), un’affascinante e misteriosa donna sensitiva, Sir Malcolm Murray (Timothy Dalton), un ferrato esploratore intento a ritrovare sua figlia, Ethan Chandler (Josh Hartnett), un abilissimo pistolero dalle origini enigmatiche e Victor Frankenstain (Harry Treadaway), l’unico personaggio già esistente che tutti (spero) conosciamo.

La storia inizia con la ricerca di Mina, figlia di Sir Malcolm Murray e grande amica di Vanessa Ives, rapita dai vampiri e imprigionata. Da qui in poi i nostri protagonisti si ritroveranno a dover lottare contro forze oscure più grandi di loro, combattere contro i propri demoni personali e sopratutto sopravvivere a tutte le minacce che tenteranno di farli fuori.


Penny Dreadful è una serie fruibile da qualsiasi tipo di pubblico in quanto non è indirizzata solamente a chi conosce le storie originali dei vari personaggi. Certo, se si conoscono già le opere letterarie vi è un pizzico di gusto in più nell’osservare come qui vengono trattate; Ma non temete, dopo aver visto la serie avrete sicuramente voglia di recuperare i libri originali e leggerveli tutti d’un fiato.

Su Netflix, la serie (ancora disponibile) è stata vietata ai minori di diciotto anni, difatti oltre a varie scene di sesso abbastanza esplicite, sangue e violenza, non mancano le possessioni demoniache rappresentate in modo abbastanza crudo.
Bimbi, via dal televisore!