domenica 25 febbraio 2018

Vikings V: piccoli cinghiali crescono



“I piccoli cinghiali grugniranno quando sapranno quanto ha sofferto il vecchio cinghiale”

Questo è stato il motivo principale della conclusione della quarta serie di Vikings: tutti i piccoli Lodbrok sbarcati in Inghilterra fanno fronte comune pur di vendicare la sorte del leggendario padre.

Nella prima parte della quinta serie, composta da dieci episodi messi in onda fino a fine Gennaio, i piccoli cinghiali continuano a grugnire ma  l’uno contro l’altro. Uscito dai giochi di potere quasi subito Bjorn la Corazza, che preferisce le calde acque mediterranee alle gelide del Mare del Nord, è Ivar a tiranneggiare i fratelli rimasti. Ivar il Senz'Ossa guida i Norreni in battaglia alla conquista di York, è lui ad annientare l’esercito di Re Aethelwulf ed è sempre lui a decidere di vendicare questa volta la madre muovendo guerra contro Laghertha. Dall’altra parte vi è Ubbe che non riuscendo ad arginare il carisma e la sagacia di Ivar, scappa come un codardo al capezzale della regina di Kattegat. Nel mezzo ci sta Hvitserk che beh…nemmeno lui sa bene con chi sta realmente!

In Vikings 5 fratellanza è sinonimo di slealtà: Re Arald ha visto il fratello Halfdan seguire Bjorn nella sua avventura esplorativa e lo ritroverà solo nel campo di battaglia, questa volta però nello schieramento opposto. Nemmeno nel Wessex i due principini vanno tanto d’amore e d’accordo e alla fine di tutto farà addirittura la sua ricomparsa anche Rollo, un altro a cui è sempre stato stretto il titolo di “fratello di”.

Sintetizzate le intricate vicende dei fratelli Lodbrok e affini, la serie naviga in acque molto calme, non sembrano infatti esserci terre all'orizzonte per circa tre quarti della serie. Io ho provato una fastidiosa impazienza, attendendo un colpo di scena che tardava (troppo) ad arrivare. Ma alla fine anche noi sperduti spettatori troviamo la Terra Promessa, il Valhalla che proprio crede di aver trovato Floki nella storyline a lui dedicata. Apro una piccola parentesi a riguardo; cari autori dove avete nascosto tutta l’imprevedibilità e la genialità di quel meraviglioso scherzo della natura che ERA il personaggio di Floki? Mi sento come uno di quei poveri disgraziati che si sono fatti convincere a seguirlo in quella desolata (sceneggiatura?) terra: profondamente delusa.

Ma infine la svolta arriva per tutti! “Moments of Vision” è l’appassionante ultimo episodio, che spiazza, colpisce ed emoziona. La battaglia entra nel vivo, i protagonisti sono tutti pronti ad affrontare i propri personali demoni a colpi di ascia, ma in un'inusuale maniera intimista con una ripetizione di soggettive, molto diversa rispetto ai clamori delle grandi epiche battaglie del passato; scelta che ho trovato davvero coinvolgente. A questo punto sono obbligata a parlare del mio personaggio preferito di questi episodi: Astrid, l’unica che si mostra capace di un amore puro e coraggioso, ma soprattutto leale.


Lo slogan “Who will rise?” che ha lanciato questa stagione non ha ancora trovato risposta certa. E non è l’unica domanda rimasta aperta: era davvero necessario scomodare Jonathan Rhys Meyers per interpretare un personaggio così privo di sfumature come il Vescovo Headmund? Speriamo che la seconda parte della stagione giunga presto a darci tutte le risposte.

giovedì 22 febbraio 2018

Everything sucks! Il ritorno dei '90

Everything sucks! Serie tv per adolescenti targata Netflix, uscita il 16 febbraio è composta da 10 episodi da 25 minuti.


L’ho divorata in meno di 24 ore, erano mesi che la stavo aspettando ed essendo composta da episodi molto brevi, mi ha aiutato.

Ambientata nel 1996 nella cittadina di Boring segue la vita di alcuni liceali, divisi in due club quello di teatro e quelli dell’audiovisivo. Inizialmente i due gruppi s’ignorano, poi non si sopportano e alla fine uniscono le loro forze per creare un “prodotto”.

Si potrebbe dire che i protagonisti sono sei, con membri dei club secondari. Luke O’Neil (Jahi Di'Allo Winston), frequenta il primo anno di liceo, insieme ai suoi inseparabili amici Tyler(Quinn Liebling) e McQuaid (Rio Mangini),  s’iscrivono al club dell’audiovisivo, il che consiste nel seguire le riprese del telegiornale scolastico. Luke incontra Kate Messner (Peyton Kennedy) e se ne innamora perdutamente, la ragazza è la figlia del preside e gli amici lo mettono in guardia: se iniziasse a frequentarla per loro le cose potrebbero mettersi male, diventando facili bersagli.

Ma questo problema è secondario. Il club del teatro è frequentato dai fichi della scuola (ma non lo erano i giocatori di football e le cheerleader?) Emaline (Sydney Sweeney) e il fidanzato Oliver (Elijah Stevenson). Luke e Kate iniziano a frequentarsi, lui tenta di baciarla, ma lei fa scattare l’allarme antincendio allagando tutto il teatro della scuola. A questo punto il club di teatro non potrà più andare in scena e inizieranno a perseguitare Luke, per essere la causa di questa tragedia. Alla fine i due club uniranno le loro forze per girare un film ed accontentare così tutti.

La serie è carina, non entusiasmante, probabilmente gli episodi sono troppo corti e i due club fanno amicizia troppo presto, manca un vero antagonista, il disturbatore della serie. Kate Messner sembra una versione omosessuale di Joy Potter di Dowson’s Creek, in realtà questo telefilm lo ricorda molto, solo che a differenza dell’originale in questo non usano paroloni o concetti filosofici degni di Schopenhauer.

Sembra un grandissimo videoclip musicale in stile anni ’90 e questo aspetto mi è piaciuto un sacco, anche se è ambientato in quegli anni nel contenuto e nel linguaggio non li rispecchia per nulla, la sessualità non veniva affrontata in maniera così esplicita e i ragazzini non rispondevano mai in maniera maleducata ai genitori o agli adulti in generale. La recitazione di alcuni è un po’ sopra le righe, stile Kiss me Licia con Cristina D’Avena, che per i protagonisti di teatro, un po’ può starci, ma svilupparla per 10 episodi diventa un po’ stancante. La serie si conclude con alcuni punti interrogativi, che probabilmente verranno risolti nella seconda stagione, quasi sicuramente la guarderò, ma non la sto aspettando con ansia, non è una di quelle serie che termina e ti viene da dire “Cavoli (o qualche altra parolaccia) quanto devo aspettare adesso???”. 

martedì 20 febbraio 2018

Black Panther


(Ryan Coogler, 2018)

Nato nel 1966, creato da Stan Lee e dal fratello Larry Lieber, T’Challa è l'unico re terreste del Marvel Cinematic Universe. Black Panther è tra i film più politici della serie assieme ad Iron Man e The Avengers; in questo film ci sono tantissimi spunti di riflessione sulla società americana contemporanea (l’attuale presidente degli Stati Uniti è appoggiato dal Ku Kluk Klan).
Il film di Ryan Coogler inizia al termine degli eventi della Civil War (2016). Dopo la morte del padre, T’Challa/Black Panther (Chadwick Boseman) ritorna nel nativo Wakanda per essere incoronato re.
Il Wakanda è al centro del mondo e fuori dal mondo, in apparenza poverissimo stato dell’Africa centrale, nasconde grandi giacimenti di Vibranium, il metallo più raro sulla terra e alla base di tutte le tecnologie del paese; il principale compito del re è proteggere questo segreto che ha permesso la “sopravvivenza” della nazione in un continente vittima per centinaia d’anni di abusi e violenze della colonizzazione occidentale.
Black Panther è epico e bellissimo, sceneggiatura e dialoghi risentono di echi shakespeariani.
T’Challa deve lottare contro una bugia, che ha impedito al padre di fare la cosa giusta. I segreti di famiglia creano e crescono i nostri mostri. Black Panther è il film più femminista della Marvel fino ad ora, fatto di bellissime donne guerriere che lottano per difendere la propria terra; una svolta nella narrazione dei blockbuster supereroiestici assieme a Wonder Woman (2017) di Patty Jenkins.

Wakanda Forever!

lunedì 19 febbraio 2018

A casa tutti bene, l'isola dello sclero!

A casa tutti bene è l’ultimo film di Gabriele Muccino, in questo film vengono riunite alcune vecchie conoscenze del suo cinema. La storia, sembrerebbe buona, lo svolgimento decisamente peggio: Alba (Stefania Sandrelli) e Pietro (Ivano Marescotti) per il loro cinquantesimo anniversario di matrimonio radunano tutti i parenti più stretti, figli, fratelli e nipoti su un’isola. Tutti dovrebbero rimanere il tempo della cerimonia e i festeggiamenti, ma arriva un forte temporale che blocca tutti i traghetti, quindi l’allegra famigliola sarà costretta a convivere per almeno due notti. Ci sono talmente tanti personaggi che per scrivere la recensione mi sono dovuta fare un albero genealogico, ma la cosa è che a tutti si vuole dare spazio, così si finisce per avere piccoli frammenti di storie e nessun quadro completo della situazione.
I festeggiati hanno tre figli: Paolo (Stefano Accorsi) il ribelle della famiglia, scrittore, artista, intellettuale, viaggiatore; Sara (Sabrina Impacciatore) sposata con  Diego (Giampaolo Morelli), hanno un figlio e lui la tradisce (con Tea Falco, per tutto il film avevo il terrore di vederla sbucare, pregavo perché non avesse un ruolo principale per non sentirla recitare per molto tempo e grazie al cielo ha avuto una particina di pochissimi minuti, recitati come al solito alla sua maniera, mi chiedo, ma sta ragazza perché recita?); Carlo (Pierfrancesco Favino), divorziato dalla dolcissima Elettra (Valeria Solarino) e risposato con la schizzata Ginevra (Carolina Crescentini) e beato tra le donne ha due figlie, tutti e cinque (più il migliore amico della figlia maggiore) sono presenti alla cerimonia. La seconda moglie è ossessionata dalla prima e il drammone è servito come un pranzo di Natale. Alla cerimonia è presente anche la sorella di Pietro, Maria (Sandra Milo, ogni volta che parlava mi aspettavo che iniziasse ad urlare “Ciro”, peccato che uno dei suoi figli non si chiamasse così nel film), meno ricca ed economicamente meno fortunata del fratello, ha due figli: Riccardo (Gianmarco Tognazzi) e Sandro (Massimo Ghini). Sono questi membri della famiglia a muovere un po’ tutta la situazione e a mettere in risalto tutte le ipocrisie dell’altro ramo della famiglia. Le coppie più riuscite, perché autentiche, che cercano di prendere di petto le loro difficoltà e non le nascondono sotto il tappeto come fossero polvere sono Riccardo e la moglie Luana (Giulia Michelini), i due aspettano un figlio e sono in serie difficoltà economiche, vengono trattati come pezze da piedi, tant’è che li mettono a dormire su un materasso, per terra. Si può far dormire una donna incinta per terra e dare il letto a due adolescenti? Non vi dico la rabbia. Riccardo vorrebbe tornare a lavorare al ristorante dei cugini, ma loro non lo rivogliono assolutamente, Luana osserva i tentativi del marito di elemosinare un impiego e strisciare ai piedi dei parenti, alla fine sbotta gettando in faccia tutte le verità degli altri componenti della famiglia. Una grande, avrei voluto tanto alzarmi in piedi ed applaudirla. L’altra coppia è quella composta da Sandro e la moglie Beatrice (Claudia Gerini), lui è malato di Alzheimer, spesso fa ridere, perché è regredito ad uno stato infantile però nella risata a me ha messo tristezza, chi conosce questa malattia sa che c’è poco da ridere e Beatrice lo sa, deve prendere una decisone per lei e per il marito, urla in faccia al fratello di Sandro quello che sta passando, insieme allo sclero di Luana, tra le scene più riuscite del film. Forse le uniche.

Azzarderei a dire che è tra i film meno riusciti di Gabriele, urla inutili, personaggi piatti, macchina da presa frenetica che rincorre i personaggi che litigano rincorrendosi per tutta la casa, per le salite dell’isola (bisogna far movimento se si vuole recitare ansimando), si cerca il movimento anche quando non è importante. Manca una riflessione, su cosa dobbiamo riflettere? Sull’ipocrisia borghese? Di nuovo? Se voleva farlo, questa volta è uscito male, mancano gli ambienti borghesi, manca una direzione precisa dei personaggi e della storia stessa. Peccato, è un film che non è né carne, né pesce! 

sabato 17 febbraio 2018

Sono Tornato


Ho sempre pensato che l'unica chiave di lettura dell'Italia sia la satira che sfuma nel grottesco; Sono Tornato è grottesco, quanto attuale.
Remake del film tedesco Lui è ritornato (Er ist wieder da) del 2015 diretto da David Wnendt basato sul romanzo di Timur Vermes (2012).
Le sinossi dei due film sono speculari. Hitler si risveglia nella Berlino del 2015 e Benito Mussolini “magicamente” si ritrova nella Roma del 2017.
La domanda del film è semplice “Cosa potrebbe succedere se il Duce "ritornasse sulle scene"?
Un ibrido di materiali, riprese documentarie (le immagini del giro d’Italia del regista di documentari interpretato da Frank Matano sono autentiche) e di finzione mostrano la necessità degli italiani di avere un interlocutore. Dopo questo viaggio on the road del Paese, il Duce, il fondatore della propaganda, identifica nella mancanza di sogni il problema principale del paese.
Tutti vedono nel Duce un attore con una comicità surreale, una persona con cui relazionarsi, non uno spettro o un mostro del passato; Maurizio Popolizio è di una bravura immensa e mi ha spaventato.
Al termine del film, da uno dei protagonisti ci viene chiesto di ricordare e di non perdonare.






giovedì 15 febbraio 2018

THE RED HARLEQUIN – COSA SI NASCONDE DIETRO LA MASCHERA DI UN’OPERA?


The Red Harlequin è un’opera cupa e drammatica, ambientata in un medioevo distopico, con una forte componente visiva che cattura il lettore sin dalle prime pagine. Il fumetto, in via di sviluppo, è nato dall’omonima serie di libri uscita per la prima volta in Francia. Ad oggi ne contiamo cinque, che hanno venduto più di 15.000 copie. Con noi abbiamo Roberto Ricci, l’autore dei romanzi e del fumetto in questione che ho avuto la fortuna di leggere in anteprima, che ci racconterà nel dettaglio la storia e ci svelerà qualche piccolo retroscena.


In breve, introducici nel mondo che hai creato. Cosa racconta la tua storia?

Il mondo che ho creato è un mondo diverso dal nostro, surreale, in cui tutti i suoi abitanti devono indossare delle maschere in pubblico, (è una delle Leggi Collettive), e in cui ciascuna nazione si identifica in un colore. E’ un mondo dove è il colore che crea l’identità culturale e politica di ciascuno e dove se non appartieni ad un singolo colore vuol dire che appartieni a tutti e a nessuno e quindi fai parte degli Arlecchini, creature misteriose di cui tutti hanno paura proprio perché non conformi alle regole. La mia storia racconta, attraverso una favola distopica, i pregiudizi e le ipocrisie che risultano avere il sopravvento su società chiuse in loro stesse e nelle loro paure. Ma Red Harlequin racconta anche della forza inarrestabile del cambiamento che spazza via tutto ed è rappresentata dal protagonista, un quattordicenne membro della Nazione Nera di nome Asheva. La sua diventa una forza (anche violenta) depuratrice e non a caso per il nome mi sono ispirato a Shiva, la divinità indiana che rappresenta sia la forza distruttrice che quella rigeneratrice (ora smetto di parlare su questo argomento se no va a finire che spoilero!).


Quando si parla di maschere è inevitabile pensare al rinomato Luigi Pirandello. Quanto hai preso in prestito dalla sua arte per scrivere questa storia?
Ad essere sinceri, sebbene ho letto (e apprezzo molto) Pirandello, non mi sono ispirato a lui ma piuttosto sono andato ancora più indietro nel tempo alla nostra tradizione della Commedia Dell’Arte e al Carnevale.
Sono sempre stato affascinato dal discorso delle maschere, dai costumi e dal Carnevale. Di fatto, nei secoli scorsi il Carnevale era anche visto come una liberazione, potevi indossare una maschera e per una notte non essere più quello che eri di giorno. Ho fatto mio questo concetto in Red Harlequin. Nei miei libri i personaggi liberi sono gli Arlecchini appunto.


Ogni autore nasconde se stesso all'interno di un'opera. Tiziano Sclavi ha affermato che in Dylan Dog lui fosse i mostri. Tu dove ti sei nascosto?

In Asheva, ovviamente.


I fumetti viaggeranno sulla stessa scia dei libri o prenderanno una strada diversa?

I fumetti viaggiano sulla stessa scia dei libri. Abbiamo appena completato il primo volume, chiamato “La Nazione Nera” che ricalca appunto quanto accade nella prima metà di Maschere e Cromi, il primo libro della serie.


Come hai gestito la scrittura del libro avendo a disposizione solamente le parole per mostrarci un mondo che ha come protagonisti i colori?

Mi dicono che sono molto “scenico” cioè che rappresento bene la scena e i personaggi. Per quanto riguarda mostrare un mondo che ha come protagonisti i colori, non è poi così difficile. Anche il nostro mondo ha per protagonisti i colori, solo che non ci facciamo più molto caso. Basta vedere come siamo vestiti, a partire dai tradizionali colori azzurro e rosa che segnano ed identificano l’identità nella prima infanzia, ai colori che individuano le nostre appartenenze politiche fino alle città tutte di un colore (basta pensare a molte città mediterranee dipinte tutte di bianco)


Raccontaci del rapporto che hai avuto con i tuoi collaboratori, Giuseppe De Donato alle matite e Elisa Bartolucci ai colori: Sono entrati subito nella tua testa per replicare visivamente il mondo che hai creato?

Il progetto è nato in primis con un amico (nonché l’Art Director dei fumetti) Alessandro Tarabelli con cui già collaboravo da tempo su altri progetti. Alessandro è un artista e graphic designer con alle spalle venti anni di esperienza. Con lui abbiamo iniziato a ragionare concretamente sul progetto. Poi, grazie alla scuola di comics di Jesi di cui Alessandro è stato un diplomato, abbiamo avuto la fortuna di incontrare prima Giuseppe e poi tramite Giuseppe, anche Elisa. Giuseppe ed Elisa sono due ragazzi pieni di talento e per me non è che la riprova che in ambito design e fumetti la scuola italiana non é seconda a nessuno. Giuseppe ha il dono, oltre che quello di essere un grande disegnatore, di essere molto “cinematico” e quindi è riuscito a fornire un dinamismo alla sceneggiatura e alle vignette visivamente molto appagante. Con Elisa invece è arrivata la primavera, nel senso che da subito ha dato un suo stile molto originale e “fresco” alla colorazione, che poi era fondamentale in quanto appunto i colori fanno parte anch’essi della narrativa.


Per aiutarli, hai dato loro opere di riferimento alle quali ispirarsi? Se si, quali?

Per la colorazione ad esempio, ho fatto riferimento a Star Wars. In Red Harlequin, il colore di appartenenza è tutto e quindi ne consegue che i personaggi debbano essere vestiti di quel colore. Allora ho fatto riferimento al fatto che in Guerre Stellari tutti i cattivi sono sempre monocromatici, tutti Rossi, tutti bianchi, tutti neri ecc. In Red Harlequin il concetto è più o meno simile anche se con nuance diverse.


Parliamo invece del lato tecnico del fumetto: Visivamente, quanto sarà fondamentale la componente cromatica? Giocherete molto con i colori a seconda del regno nel quale ci troviamo?

Nel primo volume del fumetto, ambientato nella città Nera di Axyum, abbiamo scelto di rendere tutto molto scuro e desaturato, per enfatizzare appunto il concetto cromatico (o monocromatico) dei Neri e per enfatizzare anche un senso quasi claustrofobico di una società chiusa in se stessa. Successivamente, a partire dal secondo volume, si schiuderanno agli occhi del protagonista nuovi orizzonti e anche per il lettore entrerà il colore in maniera preponderante e inizierà un vero e proprio viaggio tra i Territori, fatto di nuovi colori, nuove nazioni e nuove avventure.


E lo stile del disegno sarà sempre lo stesso o subirà una mutazione?

Personalmente prediligo mantenere un unico stile, anche per dare un senso di familiarità alla serie e al lettore.


The Red Harlequin come film o serie televisiva è concepibile? Ci stai lavorando?

E’ concepibilissimo! E infatti ci stiamo lavorando da ottobre scorso, cioè da quando io e la mia agente Lisa Hryniewicz siamo andati a proporlo al Mercato Internazionale dell’Audiovisivo (MIA) a Roma dove abbiamo avuto riscontri talmente entusiasmanti che hanno sorpreso anche noi.


Puoi farci qualche piccolo spoiler su cosa ci aspetterà nel futuro di questa serie?

Beh, non mancano certo i colpi di scena durante tutta la serie. Posso solo dire che ad un certo punto del suo viaggio Asheva incontrerà un arlecchino rosso...

martedì 13 febbraio 2018

Carnevale, su la Maschera!

Per festeggiare Carnevale noi FilmLovers abbiamo deciso di "mascherarci", ovviamente a tema cinema! Come sempre ne avremo per tutti i gusti, Su la maschera!


Francesca Guarnieri consiglia, Marie Antoinette (Sofia Coppola, 2006)


Se dovessi vestirmi come un personaggio di un film per carnevale, prenderei due piccioni con una fava. Il mio “vestito” non è solo filmico, ma anche storico: Marie Antoniette, il film è di Sofia Coppola con Kirsten Dust nei panni della regina di Francia. Nella pellicola del 2006, si racconta la vita di corte di Maria, la sua vita a Versailles, il matrimonio con Luigi XVI, l’adulterio, la rivoluzione, il tutto condito con una spruzzatina di pop (neppure tanto –ina). Gli abiti sono stati disegnati da Milena Canonero.
Piccola curiosità Dall’undici febbraio fino alla fine di maggio, gli abiti originali del film saranno in mostra alla Sala Mostre Temporanee del Museo del Tessuto di Prato, Marie Antoniette. I costumi di una regina da Oscar
La mia scelta è più estetica, che storica, gli abiti del film sono spettacolari e mi piacerebbe avere un bustino che mi faccia un vitino da vespa, forse con le parrucche mi andrebbe peggio, ma in una scena del film la regina ha i capelli rosa, l’ho già provato e averlo è stato adorabile (mia madre non è della stessa opinione).
Non voglio dare altre informazioni, ma lasciarvi ammirare gli abiti del film con un collage. 


Stenia Grassetto consiglia, Via Col Vento (Victor Fleming, 1939)


Sin da bambina, una nota cinefila era presente nei miei festeggiamenti per il Carnevale ed era Via col Vento, cioè il mio travestimento era molto simile ai costumi usati da Rossella o meglio Scarlett (interpretata dalla meravigliosa Vivien Leigh) e Melania (Olivia De Havilland). Il destino vuole che questo film sia tra i più visti nella mia vita e sia il più visto della storia del cinema.
Da bambina non capivo Scarlet O’Hara continuava a correre dietro a Ashley (Leslei Howard) che non le ha mai dato speranza e respingeva il più fascinoso Rhett Butler (Clark Gable) chiaramente innamorato di lei; più avanti con il tempo l’ho capita.
Scarlet non è innamorata di una persona e per questo uno dei personaggi più autentici della storia del cinema, Scarlet è innamorata di un’idea, un’idea di un passato legato alla decadenza di un’aristocrazia terriera già “morta” che muore “fisicamente” nella guerra di Secessione americana (1861-1865); Rossella è la voglia di vivere e la capacità di sopravvivere a tutto perché infondo “Domani, è un altro giorno!


Giada Ravara consiglia, I Tenenebaum (Wes Enderson, 2001)


Nelle vesti di chi mi calerei per Carnevale? Il primo nome sulla mia lista è di certo Margot Tenenbaum.
È da sempre uno dei miei personaggi femminili preferiti: cinica, sofisticata e irrimediabilmente depressa.
Gwyneth Paltrow interpreta nel film di Wes Anderson “I Tenenbaum” la figlia adottiva di Royal e Etheline, geniale scrittrice prodigio che conduce una vita in costante fuga dalla noia che la tormenta, osservando una maniacale riservatezza.
Margot è impeccabile nella mise che ripropone in quasi tutto il film: caschetto con molletta rossa a fermare il ciuffo, trucco nero pesante sugli occhi, vestitino a righe Lacoste, pelliccia di visone, borsa Kelly di Hermes e mocassino marrone. Iconica con la sua sigaretta sempre accesa, perché diciamolo: fumare fa molto male, ma da un certo tono (SOPRATTUTTO NEI FILM). Le manca un dito, ma in Margot anche questa imperfezione non fa che aumentare l’allure di mistero che la circonda.
La sua vita sentimentale è costellata da turbolenti relazioni; un amore saffico parigino, bizzarri flirts e matrimoni segreti con personaggi eccentrici, fino all’ultimo marito, interpretato da Bill Murray, un maturo accademico che ovviamente stravede per lei. Nonostante le sue numerose avventure, Margot ha da tutta la vita un unico e straziato amore: il fratellastro Richie (Luke Wilson), che si strugge per lei fin da ragazzino.
Ecco, insomma vorrei anche io per un giorno sentirmi una figa assurda, fregandomene comunque beatamente di tutto e di tutti. Anche se in verità qualcosa in comune io e Margot l’abbiamo: il bagno è il nostro buen ritiro prediletto, in cui passare interminabili ore in vasca o rifarci lo smalto. Provare per credere.
Cosa le invidio di più? No, non il suo fascino e stile inconfondibile, troppo facile. Nemmeno il sapore malinconico che la contraddistingue. La cosa che vorrei tanto avere è il suo imperturbabile approccio alla vita, immune ai cambiamenti e alle avversità, che rende Margot Tenenbaum un personaggio atipico, superbamente eterno.

Laura Perrotti consiglia, Cenerentola (Kenneth Branagh, 2015)

Ebbene sì. sono una grande fan di Cenerentola fin dalla più tenera età.
Quando era una bambina mi sono vestita da Cenerentola per anni, e ogni anno aggiungevo qualcosa al vestito, il risultato finale è degno di quello del film. 
C'è qualcosa nel personaggio di Cenerentola che amo da sempre, forse perchè mentre fa le faccende di casa canta a squaciagola come se fosse la cosa più naturale del mondo (lo faccio anche io, ma non sono proprio spensierata), forse per il romantico ballo a palazzo o semplicemente perchè alla fine la sua bontà viene ripagata e da serva delle sue sorellastre (o come le chiamavo da bambina "sorellacce") sposa il principe e diventa regina. 
Ci sono molte versioni cinematografiche di questa fiaba, quella più famosa è il cartone della Disney del 1950; però io ho apprezzato molto anche la versione live action diretta da Branagh. 
In questo film i costumi sono una delle componenti più curate, sono fastosi e davvero "da fiaba". Diciamo che, dopo di me, Lily Collins è la Cenerentola più elegante di sempre.


domenica 11 febbraio 2018

Gabriele Muccino Made in Italy! - Ricordati di me! Siamo giunti al termine

Siamo giunti al termine, di questa magica carrellata sui primi film italiani di Gabriele Muccino, abbiamo iniziato quasi un mese e mezzo fa questa avventura tra grandi attori e pessime prove di
recitazione con Ecco fatto, siamo passati al nostalgico Come te nessuno mai, all’amore e odio dell’Ultimo Bacio fino ad arrivare a Ricordati di me. Lo ammetto, lo ricordavo molto poco in realtà. Con questo film il mio interesse per Gabry se ne va in America.  Il film inizia con una voce fuori campo, stile il favoloso mondo di Ameliè (il narratore in entrambi i film è Omero Antonutti).  Carlo (Fabrizio Bentivoglio) e Giulia Ristuccia (Laura Morante) (si chiamano come i protagonisti de L'ultimo bacio, mentre il cognome è della famiglia di Silvio di Come te nessuno mai, il cerchio si chiude). Carlo e Giulia sono sposati, hanno due figli, Paolo (Silvio Muccino) e Valentina (Nicoletta Romanoff), un lavoro, un cane, vivono in un appartamento, in un palazzo "borghese" (la borghesia, tanto cara a Muccino) a Roma.  Tutto sembrerebbe filare, ma Carlo e Giulia non sono felici, entrambi hanno sacrificato i loro sogni per non si sa cosa, forse per amore, anche se non sembrerebbe quello il reale motivo, visto che Giulia ha avuto due sbandate e Carlo avrà la sua nel film (in tutti i sensi, se non avete visto il film, non anticipo).  Lei voleva fare l'attrice di teatro, ma si ritrova a fare l'insegnante.  Lui, voleva fare lo scrittore, ma lavora in un ufficio (non ho ben capito che lavoro faccia, chiude contratti, ma non so di che tipo). Alla festa degli ex compagni Giulio rivede Alessia, la fidanzatina del liceo, una sempre bellissima quanto incapace di recitare Monica Bellucci. A Giulio scoppia l'ormone nostalgico, si sente giovane, riprende a scrivere, scappa al mare con Alessia e vorrebbe mollare la moglie.  Poi ci sono i due figli, Paolo all’ultimo anno di liceo, si sente in crisi, vuole essere accettato dal suo gruppo di amici, fumarsi kili di maria senza andare in collasso e fidanzarsi con la sua compagna di scuola, una giovane finta frichettona, intellettualmente impegnata con le perle Ilaria (Giulia Michelini).  Valentina vorrebbe farsi tutti i produttori, registi e presentatori della tv pur di diventare una valletta. Se li fa e diventa una “velina”. Le cose restano molto sospese, quasi tutti ce la fanno, ma al termine del film, rimane un alone di sospensione (neppure tanto velata, anzi), di blocco fotografico su di un attimo che preannuncia una morte, intesa come la fine di qualcosa. Però non si sa, ci vorrebbe come per L’ultimo Bacio un sequel dal titolo Ricordiamoci di loro. Ha alcuni interessanti spunti, da un punto di vista tecnico e formale è riuscito, però come già ho detto non sono film così tanto impegnativi, dopo averne fatti tre costruiti tutti nella stessa maniera è normale che dopo tanto esercizio sia uscito bene (ascensori, palazzi, interni, le corse liberatorie per Roma).

 Ora prima di salutarvi e darvi appuntamento a dopo San Valentino (esce A casa tutti bene), posso darvi alcuni consigli per superare un provino con Gabry (presumo girerà altri film in Italia):
-      Allenatevi come se doveste correre la maratona di New York, vi farà sicuramente correre dopo un momento di gioia infinita.
- arrivare al provino correndo, così avrete il fiatone prima di parlare seduti in divano e chiedere in qualsiasi scena “Che pensi”, “Chi sono”, il fiato corto crea phatos.
- parlare come se avessimo un kilo e mezzo di ceci, conditi con semi di chia imitando Jovanotti, fingendo che il nostro interlocutore sul divano (generalmente un famigliare o una persona che ci conosce da almeno 20 anni) sia un 90enne senza apparecchio acustico (ricordate sempre di ansimare.
- Fingete di essere politici di sinistra, trasandati e impegnati (tutto per finta), però chiedere sempre agli altri quello che pensano, ma non di un argomento x, ma di te!
-Essere in crisi o fingersi in crisi anche se sei una futura letterina con il qi pari a quello di una cimice asiatica in trasferta nel Veneto.


Però questo andava di moda nei primi anni 2000. Aspettiamo il prossimo per vedere se in America sono nate nuove esigenze.

P.S. C'è il grandissimo Pietro Taricone, dovevo dirlo, altrimenti la Perry non mi parla più! 

giovedì 8 febbraio 2018

"A bigger splash", il primo tuffo tra le stelle di Hollywood di Luca Guadagnino


Luca Guadagnino: è lui l’uomo del momento del cinema italiano. Complice il successo ottenuto ai Golden Globes, ed ora la trepidante attesa per le 4 candidature all'Oscar, ricevute per “Chiamami con il tuo nome”, sua ultima fatica.

Ma vorrei fare un passo indietro, concentrandomi sul titolo che l’ha visto affacciarsi sul panorama internazionale: “A bigger splash” è il suo quarto lungometraggio, uscito nelle sale nel 2015. Venne presentato a Venezia dove ottenne solo fischi, salvo poi godere di ampio consenso all'estero; vecchia storia, viene da dire...davvero difficile venir riconosciuto come profeta in una patria come l'Italia.
Ricalca il soggetto de “La piscina”, celebre pellicola del 1969 di Jacques Deray, immortale interpretazione di Alain Delon accompagnato da Romy Scheneider e Jane Birkin.
Guadagnino ne ripropone l’intreccio, con un cast all'altezza: Tilda Swinton (che già aveva lavorato con in regista nel 2009 in “Io sono l’amore”) è Marianne, rock star in convalescenza da un intervento alle corde vocali che sta trascorrendo le vacanze con il fragile fotografo Paul, Mathias Schoenaerts, i due passano le loro giornate assorti in un irreale silenzio, ospiti di una villa a Pantelleria, che ovviamente non manca di godere del lusso di una piscina. Il silenzioso idillio dei protagonisti viene sconvolto dall'improvviso arrivo dell’istrionico Harry, produttore ed ex fidanzato di Marianne, interpretato da Ralph Fiennes che porta con sé la troppo giovane Penelope, figlia che ha da poco scoperto di avere, che ha il volto di Dakota Johnson.

Da qui vi è un cambio radicale di ritmo nella storia: Harry innesca una serie di eventi con l’unico scopo di riavere la donna mai dimenticata, compagna di una vita fatta di eccessi e successi che Harry cerca affannosamente di far tornare alla mente di Marianne e che parallelamente fanno affiorare in Paul i vecchi demoni della depressione e dell’alcolismo. Intanto anche la lolita Penn trama nell'ombra per approfittare del tormento del fotografo, assecondando le sue tendenze autodistruttive.
Le patinate vite dei protagonisti vengono mescolate alla realtà di Pantelleria, fatta di lente ed immortali consuetudini come la processione del Santo, la festa in piazza, la ricotta fatta in casa.


Ma ciò che conta davvero accade lì, a bordo piscina, testimone di scatenati balli, dolorosi rimpianti e sottili competizioni, ma soprattutto di un desiderio cocente come il sole che illumina costantemente l’isola. Come già succedeva a Benjamin ne “Il Laureato” i pensieri dei protagonisti galleggiano sospesi sulla piatta acqua, smaniosi di vedersi realizzare a qualunque costo.
Proprio la piscina sarà teatro del dramma della gelosia destinato a compiersi sin dal primo fotogramma: Paul cede all'alcool dopo aver scorto i segni del probabile tradimento di Marianne, si scaglia su Harry che battaglia con il rivale, ma finisce poi sconfitto sul fondo della vasca.
L’uscita di scena di Harry, l'elemento di rottura, pone fine ai conflitti, ripristinando il menzognero equilibrio nelle vite di coloro che sono rimasti.
Cala il silenzio, protagonista ombra della pellicola. È il silenzio la via che scelgono i sopravvissuti a questa vacanza maledetta, è la chiave che ognuno decide di usare per andare avanti nelle proprie vite: per i due amanti Marianne e Paul assume il significa di ritorno a quel’ovattato stato di grazia iniziale distante e protetto dal resto del mondo, per Penn invece il rientro in America è una fuga lontano da tutte le bugie dette e da quel (forse?) padre semi-sconosciuto.

La colpa di Paul da subito evidente per Marianne e Penelope, non lo è altrettanto agli occhi dei Carabinieri, il cui maresciallo è interpretato da Corrado Guzzanti, che conducono una goffa indagine dai toni forse un po’ troppo macchiettistici per un film che per la restante parte della trama si era reso capace di dosare bene il glamour internazionale con il sapore verace dell’isola mediterranea.

mercoledì 7 febbraio 2018

Chiamami col Tuo Nome


I fatti della nostra storia si svolgono “Da qualche parte in Nord Italia”; per un’estate un giovane dottorando americano, Oliver (Armie Hammer), sarà ospite del suo professore d’archeologia (Micheal Stuhlbarg) e la sua famiglia, la moglie (Amira Casar) e il figlio diciassettenne Elio (Timothée Chalamet)
Ho avuto bisogno di un po’ di tempo prima di mettere in ordine le idee dopo aver visto Chiamami col Tuo Nome.
Ho sintetizzato il mio sentire con il termine accettazione; l’accettazione del desiderio, dello scorrere del tempo e del dolore.
Elio accetta di provare un forte desiderio per Oliver, un giovane uomo, più grande. Questo film può essere definito un coming of age: un film sulla crescita perchè Elio sarà "vittima" di un crescendo di sentimenti sino a arrivare alla sessualità. (NO, non è uno spoiler, si capisce già dal trailer.)
Oliver e Elio sono consapevoli che ciò che li riguarda è a termine. Il bacio e il sesso sono arrivati perché la vacanza di Oliver è ormai giunta alla fine e deve ritornare negli Stati Uniti, e devono vivere il poco tempo che gli resta o tutto rimarrà solo un rimpianto.
Il papà di Elio (un personaggio bellissimo) gli sta vicino nei giorni dopo la partenza di Oliver e non tenta di consolarlo nel senso tradizionale del termine, cerca di dargli un consiglio "da psicologo" più che da padre "Right now, there's sorrow, pain. Don't kill it and with it the joy you've felt." cioè vivi il tuo dolore accettalo, non ucciderlo. 
Luca Guadagnino in un'intervista a Vincenzo Mollica ha definito Chiamami col tuo nome un film sull’empatia. 
Si, è un film sulle emozioni, sull'empatia, sulla capacità di sentire e vivere le emozioni.
Si, è proprio un grande film. Sensuale, sofferente e autentico!













P.S. I titoli di coda sono tra i più belli della storia del cinema.




Fonte di alcune foto Behind the clapboard

lunedì 5 febbraio 2018

Tutto ciò che meritiamo di sapere, The Post

Se pensate che The Post sia l'ennesimo film storico di Steven Spielberg non è proprio così, The Post  racconta una storia molto più attuale di quanto si pensi.




Durante la guerra in Vietnam (1955-1975) alcuni giornalisti vennero inviati al fronte dal governo degli Stati Uniti. Le loro relazioni vennero prese e archiviate come top secret. Nel 1971, dopo sedici anni di conflitto non ancora terminato, la stampa americana venne in possesso di questi cosiddetti Pentagon Papers e li diffuse.
Il New York Times fu il primo a rendere pubblici stralci di questi documenti ma il presidente Nixon li bloccò con un'ingiunzione. Fu allora il Washington Post, un giornale al tempo molto meno noto, a proseguire questa campagna di informazione pubblica.
The Post parla appunto di come The Washington Post abbia trovato a diffuso queste informazioni, anche rischiando il fallimento.
Nell'epoca delle fake news, di Trump e i suoi Tweet e dei social network, Spielberg ci ricorda di come siamo arrivati fin qui.

The Post non è un film d'inchiesta come Tutti gli uomini del presidente (A. J. Pakula, 1976) e non ci mostra il potere che la stampa ha sull'opinione pubblica come Quarto Potere (O. Welles, 1941) ma è un film su cosa la stampa deve fare per i propri lettori. Il regista, infatti, tratta fatti del passato per avvertire, non solo gli americani, che la società ha il diritto di sapere e che la stampa deve diffondere con cognizione di causa le notizie. 

Il film è lo spaccato del giornalismo di una volta, quando le fonti non erano ovunque, quando le vecchie carte erano oro e macchine da scrivere e fotocopiatrici erano gli antenati di smartphone e tablet, e i giornalisti dovevano toccare con mano le fonti prima di scrivere.
La redazione del Washington Post si trova davanti al più grande dei quesiti: è lecito andare contro le direttive del presidente ma informare gli americani? Cosa succederà dopo?

La vicenda di The Post si sviluppa su due pilastri, il redattore Ben Bradlee (Tom Hanks) e Katherine Graham (Meryl Streep) la proprietaria del giornale. Graham è stata la prima donna a essere il capo di una testata e Bradlee sembra essere l'unico uomo che conta davvero su Katherine, l'unico suo dipendente che la rispetta come capo. Entrambi hanno qualcosa da perdere nell'andare contro il governo (entrambi erano stati amici dei Kennedy e dei Johnson), ma vanno avanti. Hanks e Streep ci danno le ennesime grandi interpretazioni di questi due personaggi realmente esistiti.  I due attori li rendono umani, non sono due archetipi, quello del giornalista d'inchiesta e della lady di ferro, pieni di emozioni e debolezze.

La regia di Spielberg è quella americana classica, con un chiaro rimando al già citato Quarto Potere - la macchina da presa bassa ad inquadrare i soffitti bassi della redazione del giornale ne sono un bell'esempio. Il regista ci regala, si spera, un bel cliffanger sullo scandalo Watergate, che sia tra i suoi progetti futuri?




Femminismo e libertà di stampa, di questo parla The Post, nulla di più attuale.







sabato 3 febbraio 2018

Mike & Dave: la medicina per il rientro dalle vacanze!

Ho visto questo film il primo lunedì dal rientro delle vacanze di Natale e mi stavo annoiando tantissimo. Quindi ho aperto Sky go e scelto un filmetto, qualcosa di molto leggero: Mike & Dave un matrimonio da sballo. Guardiamo, si è anche unita a me la mia dolce metà pelosa (vedi foto).




Dopo meno di due minuti di film posso già azzardare una brevissima trama, o almeno dire quali saranno i segni distintivi di questo capolavoro (ironica, si): Mike (Adam DeVine) e Dave (Zac Efron) sono due fratelli, alcool e feste. Ho un po’ il sospetto che sia tipo Due single a nozze.

Mike e Dave rovinano sempre le feste di famiglia, per questo i genitori li obbligano a presentarsi al matrimonio della sorella accompagnati da due ragazze. I due si impegneranno a trovare delle Baby sitter, mettendo un annuncio in internet, la cosa è così virale che verranno invitati in uno studio televisivo.

Dall’altra parte abbiamo le due fortunate, le versioni al femminile di Mike e Dave, Alice (Anna Kendrick) e Tatiana (Aubrey Plaza). Le due inganneranno i fratelli, fingendo che l’incontro sia del tutto casuale.

I 4 partono per le Hawaii. Disagio. Ne combineranno abbastanza, non tantissime, non è un film tipo Una notte da Leoni, ma una sorta di Pitch Perfect senza le canzoni a cappella; anche due degli attori (DeVine e Kendrick) sono in Pitch Perfect e sul finale i quattro protagonisti cantano tutti insieme.

Tra le due coppie vi è un rapporto morboso e di complicità, Dave ed Anna sono più timidi, insicuri, dolci ed apprezzati dagli altri a differenza di Mike e Tatiana che sembrano detenere il “potere” della coppia, in realtà dietro alla maschera degli arroganti, manipolatori, si nascondono due personalità molto fragili che hanno il continuo bisogno di proteggere gli altri due.

Non vi è molto su cui riflettere, nessuna doppia lettura ironica sulla società, solo un filmetto carino e divertente (parecchio divertente) che mi ha fatto passare un paio di orette sul divano, prima di andare ad aprire la biblioteca.
Bene, buona visione!

Ah, prima di lasciarvi vorrei farvi notare due cose, la prima: Zac Efron prende un extra per recitare almeno una scena senza maglietta?
Nel film viene citato il film Due Single a nozze, che vi avevo detto all’inizio? 

giovedì 1 febbraio 2018

Tutti i Soldi del Mondo

(All the Money in the World, Ridley Scott)




Il film è ispirato a un fatto di cronaca italiana: il rapimento a Roma di John Paul Getty III (Charlie Plummer) rampollo della famiglia Getty, da parte dalla 'ndrangheta.

Ci sono tre generazioni di Getty:
il fondatore, J. Paul Getty,
il figlio, John Paul Getty II,
e il nipote, John Paul Getty III.
Il fondatore dell'Impero Getty vorrebbe essere l'imperatore Adriano ma sembra essere uscito da La Roba di Giovanni Verga.
Il figlio è assorbito dal padre, è una "roba" del padre a sua volta una figura paterna assente.
Il nipote è il prediletto del "Vecchio", un ragazzo di circa 17 anni espulso più volte da scuola.

Chi ci interessa e, probabilmente, gli unici personaggi necessari al film sono J. Paul Getty (l' elegante Christopher Plummer, che a un mese dalla distribuzione ha sostituito Kevin Spacey) e Gail Harris (Michelle Williams), la madre del nipote rapito. Entrambi cercano di salvaguardare ciò che hanno di più caro. In uno dei momenti del film per l'anziano petroliere il possesso di oggetti o di persone si confondono.

Al termine del film ci si chiede dopo la morte di Getty che fine hanno fatto i suoi beni?
La risposta "Sono diventati un museo."











Fonte Behindtheclapboard