giovedì 7 settembre 2017

La pelle dell'orso, un viaggio tra simbologia e realismo


Film vincitore del Premio Flaiano Opera Prima di quest'anno, La pelle dell'orso di Marco Segato narra di un viaggio più che reale, profondamente metaforico.

Ambientato negli anni cinquanta in un paesino delle Dolomiti venete, il film ha come protagonisti Pietro Sieff (Marco Paolini), un minatore, e di suo figlio Domenico (Leonardo Mason); rimasti soli dopo la morte della moglie, i due vivono un rapporto non rapporto, Pietro è un uomo che non ha più nulla da perdere e Domenico non è per lui che un estraneo
Quando un orso attacca il villaggio, Pietro scommette con il proprio capo, Crepaz (Paolo Pierobon), di riuscire ad ammazzare l'orso e portargli la pelle. In palio ci sono 600.000 Lire, un anno di paga.
Pietro parte solo verso i boschi che circondano il paese e Domenico decide di andarlo a cercare. Lì nei boschi non troverà solo il padre, ma scoprirà molto del suo passato anche grazie a Sara (Lucia Mascino), una donna incontrata proprio nei boschi e che conosceva sua madre.

Il film, tratto dal romanzo di Matteo Righetto, è intriso nella dimensione arcaica e nel folklore veneto.
Al centro della simbologia del film c'è l'orso, orso inteso come il male, non a caso è chiamato il diaòl, quello che ammazza e sfregia gli animali da fattoria, unica ricchezza dei contadini.
Alla figura dell'orso si sovrappone quella di Pietro. All'inizio del film assistiamo infatti ad un rito folklorico in cui, alcuni uomini mascherati scendono giù dai boschi, vagano per le vie del paese fino ad un prato dove c'è una pira che verrà incendiata; Pietro indossa proprio il costume da orso.
È inoltre il reietto del paese, ex detenuto e accusato dagli abitanti di aver ucciso la propria moglie, è bersaglio di tutti, dei ragazzi che lo prendono in giro, del suo capo e degli uomini del paese che si fanno beffe di lui in osteria. Tutto ciò ricade su Domenico, che osserva impotente cosa accade al padre e che, in più, ne subisce l'indifferenza.
Pietro, l'orso, è l'unico che può uccidere il daiòl e, nel finale, i loro destini si intrecciano inesorabilmente.

Gran parte del film è ambientato nei boschi, che è il topos dell'avventura per antonomasia (si pensi alla selva dantesca, ai boschi dell'Orlando Furioso o alle Langhe dei romanzi di Cesare Pavese). Proprio lì Domenico troverà il padre, che finalmente si comporterà da padre, e il suo viaggio nel bosco lo porterà dall'età infantile a quella adulta.
Alla dimensione arcaica si affianca quella della tradizione popolare veneta, delle chiacchiere da osterie- proprio in osteria Pietro scommette con Crepaz – del vino che fa sangue e non per ultimo del Santo veneto per antonomasia, Sant'Antonio da Padova.

È interessante notare come questa profonda metaforicità della trama venga esplicitata con una tecnica di ripresa di chiara provenienza dal cinema documentario. La macchina da presa si sofferma più che sull'uomo, sulla natura che lo circonda, sui monti, sui boschi sui ruscelli, tanto da restringere al minimo la presenza di una musica extra-diegetica; infatti il paesaggio sonoro del film è prevalentemente composta dai rumori della natura.


L'impronta documentaria del film è influenzata dalla carriera del suo regista. Autore molto legato alla sua terra, il Veneto, Marco Segato ha toccato vari aspetti della cultura e dell'attualità del proprio territorio; documentari come Via Anelli, che tratta dello sgombero e della riqualificazione delle palazzine del complesso serenissima di Padova, o come L'uomo che amava il cinema, sulla figura di Pietro Tortolina, prendono sì origine da una realtà circoscritta, il Veneto, ma che hanno un respiro più ampio di ricezione.

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