Film vincitore del
Premio Flaiano Opera Prima di quest'anno, La pelle dell'orso
di Marco Segato narra di un viaggio più che reale, profondamente
metaforico.
Ambientato negli
anni cinquanta in un paesino delle Dolomiti venete, il film ha come
protagonisti Pietro Sieff (Marco Paolini), un minatore, e di suo
figlio Domenico (Leonardo Mason); rimasti soli dopo la morte della
moglie, i due vivono un rapporto non rapporto, Pietro è un uomo che
non ha più nulla da perdere e Domenico non è per lui che un
estraneo
Quando un orso
attacca il villaggio, Pietro scommette con il proprio capo, Crepaz
(Paolo Pierobon), di riuscire ad ammazzare l'orso e portargli la
pelle. In palio ci sono 600.000 Lire, un anno di paga.
Pietro parte solo
verso i boschi che circondano il paese e Domenico decide di andarlo a
cercare. Lì nei boschi non troverà solo il padre, ma scoprirà
molto del suo passato anche grazie a Sara (Lucia Mascino), una donna
incontrata proprio nei boschi e che conosceva sua madre.
Il film, tratto dal
romanzo di Matteo Righetto, è intriso nella dimensione arcaica e nel
folklore veneto.
Al centro della
simbologia del film c'è l'orso, orso inteso come il male, non a caso
è chiamato il diaòl, quello che ammazza e
sfregia gli animali da fattoria, unica ricchezza dei contadini.
Alla figura
dell'orso si sovrappone quella di Pietro. All'inizio del film
assistiamo infatti ad un rito folklorico in cui, alcuni uomini
mascherati scendono giù dai boschi, vagano per le vie del paese fino
ad un prato dove c'è una pira che verrà incendiata; Pietro indossa
proprio il costume da orso.
È inoltre il
reietto del paese, ex detenuto e accusato dagli abitanti di aver
ucciso la propria moglie, è bersaglio di tutti, dei ragazzi che lo
prendono in giro, del suo capo e degli uomini del paese che si fanno
beffe di lui in osteria. Tutto ciò ricade su Domenico, che osserva
impotente cosa accade al padre e che, in più, ne subisce
l'indifferenza.
Pietro, l'orso, è
l'unico che può uccidere il daiòl e, nel
finale, i loro destini si intrecciano inesorabilmente.
Gran parte del film
è ambientato nei boschi, che è il topos dell'avventura per
antonomasia (si pensi alla selva dantesca, ai boschi dell'Orlando
Furioso o alle Langhe dei
romanzi di Cesare Pavese). Proprio lì Domenico troverà il
padre, che finalmente si comporterà da padre, e il suo viaggio nel
bosco lo porterà dall'età infantile a quella adulta.
Alla dimensione
arcaica si affianca quella della tradizione popolare veneta, delle
chiacchiere da osterie- proprio in osteria Pietro scommette con
Crepaz – del vino che fa sangue e non per ultimo del Santo veneto
per antonomasia, Sant'Antonio da Padova.
È interessante
notare come questa profonda metaforicità della trama venga
esplicitata con una tecnica di ripresa di chiara provenienza dal
cinema documentario. La macchina da presa si sofferma più che
sull'uomo, sulla natura che lo circonda, sui monti, sui boschi sui
ruscelli, tanto da restringere al minimo la presenza di una musica
extra-diegetica; infatti il paesaggio sonoro del film è
prevalentemente composta dai rumori della natura.
L'impronta
documentaria del film è influenzata dalla carriera del suo regista.
Autore molto legato alla sua terra, il Veneto, Marco Segato ha
toccato vari aspetti della cultura e dell'attualità del proprio
territorio; documentari come Via Anelli, che tratta dello sgombero e
della riqualificazione delle palazzine del complesso serenissima di
Padova, o come L'uomo che amava il cinema, sulla figura di Pietro
Tortolina, prendono sì origine da una realtà circoscritta, il
Veneto, ma che hanno un respiro più ampio di ricezione.
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